Racconti di Storia e Preistoria

Ceneri su Norba

CENERI SU NORBA

Un racconto di Marco Mastroleo, ispirato alle vicende del sito archeologico di Norba

Novembre 82 a.C.

Una manciata di cenere si alza in volo, si disperde veloce nel vento, nelle correnti che la trascinano su, sempre più su, seguendo le piste tracciate dai falchi e dalle aquile.
Da lì, dal cielo, i granelli di cenere guardano in giù. Un tempo, quelle particelle erano parte di un corpo, frammenti di una persona. Erano, insomma, un pezzo dell’insieme che, suonando e “personando”, vibrando in sintonia, compiva quel miracolo che ci accompagna ogni giorno e del quale, a volte, dimentichiamo l’importanza: la vita.
Un tempo, quei granelli di cenere erano vita…
La mano che li ha lanciati nel vento è ancora aperta, laggiù, sembra non voler lasciarli andare, sembra che un filo invisibile, ancora, leghi quella mano al loro vagare nel cielo. È un saluto, un addio, un abbraccio, scambiato attraverso il vento, al tramonto di una giornata di sole e di una vita splendida…
Seguendo quel filo, un alito di vento torna in basso, incuriosito da questa storia. Non gliene capitano spesso di storie così, impegnato com’è, sempre, su quella rupe, a portare in volo rapaci, passeri, storni e insetti. A portare in volo la vita.
Non gli era mai capitato prima, di innalzare in volo quel che rimane dopo la morte!
Ed è seguendo la vita, come ha sempre fatto, che il vento arriva a quella mano, l’accarezza e la circonda, scende, lungo il braccio, giù fino al petto, si insinua tra le pieghe della tunica e scorre rapido fino al cuore.
Si trattiene per un momento, il tempo necessario per assorbire tutto il calore in eccesso, che era fermo lì, come un tappo. Poi, veloce e leggero come si addice al suo essere, scorre via disperdendosi di nuovo tra le braccia e il collo e liberando, una volta per tutte, quel corpo dal dolore che fino a quel momento lo aveva tenuto fermo su quel che rimane del terrazzo del Tempio di Giunone Lucina.

Il corpo cade, stravolto, in ginocchio, e si rompe in un pianto intenso, liberatorio, finale…


Tre mesi prima…

Un esercito di soldati romani è alle porte della città romana di Norba.
Il conflitto, che va avanti dall’88 a.C., nell’ultimo anno è diventato una delle peggiori guerre civili che Roma abbia mai affrontato, a dir poco travolgente. L’esercito di Silla, di ritorno da una guerra in Grecia, nell’83 è sbarcato a Brindisi e, risalendo verso Roma, ha piano piano conquistato la Puglia, il Piceno e la Campania, dove si è stabilito assediando Capua, in mano ai democratici di Mario.
Passato l’inverno, con l’arrivo dell’estate, Silla ha ricominciato la sua salita verso Roma. Si è diretto a Preneste, dove si trovava il grosso dell’esercito di Mario e, dopo averla presa, ha inviato il suo luogotenente Emilio Lepido ad assediare Norba…
Lucio Cornelio Silla, capo degli optimates, sta combattendo contro Gaio Mario, capo dei populares. L’oligarchia di Silla contro la democrazia di Mario; il potere “ai migliori”, sostenuto da Silla, contro il potere esteso al popolo, tramite i tribuni della plebe, come sosteneva la faziones di Mario.
Norba era una roccaforte militare, con mura di pietra altissime, arroccata su un altopiano roccioso che domina la Pianura Pontina da Roma al Circeo, una città nata dalla guerra e per la guerra. Norba non sarebbe caduta, come non era mai caduta prima di allora, se non per mano di un traditore.
Appiano di Alessandria racconta:
«Norba resistette ancora aspramente, finché Emilio Lepido penetrò in essa di notte a causa di un tradimento. Degli abitanti, inferociti per il tradimento, alcuni si suicidarono, altri si uccisero tra di loro, altri si impiccarono. Altri ancora, bloccate le porte delle case, vi appiccarono il fuoco… un vento sorto violentissimo a tal punto alimentò le fiamme che nessun bottino si ricavò dalla città. Costoro morirono dunque così, da forti.»
Norba finì, per un tradimento, letteralmente in fumo…


Novembre 82 a.C.

«Sono qui con te, Gaia, amica mia, alzati. Hai superato momenti peggiori, non sarà questo che ti abbatterà. La vita va avanti...» sussurrò il vento.
«Le ceneri di mia madre sono ancora calde e tu mi dici che dovrei pensare alla vita? Alla vita!? Tre mesi fa la guerra ci ha portato via tutto. Io e lei abbiamo vagato per giorni senza sapere dove andare, affamate e sole. Siamo sopravvissute al terrore dell’incendio ed alla distruzione che i soldati di Silla hanno portato solo perché sapevamo come uscire dalla città di nascosto. Siamo state in gamba, sì, delle vere romane. Lucide e fredde. Abbiamo lasciato i nostri uomini qui a bruciare e abbiamo usato le nostre conoscenze per salvarci. Anni passati a trasportare l’acqua dal fiume Ninfa alla città, lungo questi sentieri, ci hanno rese esperte… Conoscevo ogni fenditura, ogni passaggio, ogni foro, di queste mura, e sapevo come uscirne, di notte, inseguita dalle fiamme che stavano trasformando la città in lava pura… Sono scappata via, come una vigliacca, abbandonando qui la mia vita...».
«Come tutti noi! Non sei stata la sola...». Mentre Gaia parlava al vento, alle sue spalle comparve una ragazza: capelli castani legati in lunghe trecce, occhi intensi e volto segnato, scavato dalle privazioni di mesi di carestia.
«Oh, salve… parlavo... con la Dea...» disse Gaia nascondendo il viso tra i capelli, mentre abbassava lo sguardo. «Tu devi essere una sacerdotessa di Giunone, immagino...».
«Mi chiamo Aelia e, sì, ero una sacerdotessa di Giunone Lucina. Anche io sono scappata… pur senza scappare. Io non ho avuto il coraggio di lasciare questo tempio. Non ho avuto il coraggio di voltare le spalle alla mia vecchia vita. Non ho avuto il coraggio di cambiare! E sono rimasta qui, bloccata su questa rupe… per mesi...».
«È difficile separarsi da questa rupe, da questa vista. Ti capisco, Aelia. Queste che ancora scorrono tra le mie mani sono le ceneri di mia madre. Anche lei non voleva lasciare queste rupi, è, quando è giunto il momento, ho voluto salutarla qui. È in questo vento, tra le sue spire, il suo posto!».
«E, oltre a tua madre, chi hai lasciato qui, su queste rupi? Il tuo turbamento è più profondo...».
«Viro… È morto difendendo la città… Mio marito…» sospirò. Gaia si rese conto che questa era la prima volta che ne parlava. E man mano che le uscivano le parole, il suo corpo diventava più leggero, il piombo fuso che sentiva nello stomaco scendeva lungo le gambe e piano piano penetrava tra le pieghe della roccia su cui era poggiata.
Aelia la seguí: «Per anni ho animato il fuoco, l'ho tenuto sempre vivo, ho lasciato che fosse il mio unico scopo: tenere acceso il fuoco di Giunone. Qui, su questa terrazza che domina il mondo… O, almeno, tutto il mondo che conosco!».
«Vai avanti, Aelia, anche tu hai un peso di cui liberarti» incalzò Gaia.
«Il fuoco, il sacro fuoco… ed io che del fuoco ero la guardiana… Proprio il fuoco, la mia fonte di vita, è venuto a togliermela...».
Aelia era provata, ed anche lei cadde in ginocchio, con gli occhi rivolti alla pianura, mentre il vento, turbinando, sollevava ceneri e polvere verso il cielo.
«Ecco, il vento si è portato via il nostro dolore» disse Gaia, ammirando la spira di polvere e cenere salire verso il cielo. «Lo ha portato via come ha fatto con le ceneri di mia madre… e con quelle di tutti coloro che conoscevo» terminò, con due lacrime che le solcavano le guance, come una parentesi che cinge una frase.
«E la nostra storia. Si è portato via anche la nostra storia. Norba scomparirà nel vento...». Aelia si alzò, come presa da una nuova energia, come sollevata dal vento stesso, come fanno gli uccelli lungo i bordi di quella rupe. I suoi vestiti grigi, un tempo bianchi, sventolavano come una bandiera. Prese Gaia per mano e la fece alzare, a sua volta.
«Gaia, questo è un giorno speciale. Giunone mi ha portato te e la tua storia. E il vento, che ha portato via la cenere… È un segno che voglio cogliere. Sono stata cenere anche io per troppo tempo. È ora di risorgere. Andiamo. Lasciamo questa rupe. Non è più il nostro posto ormai. Andiamo. Partiamo insieme!».
«Ma… per andare dove?».
«A Roma. Andremo a Roma, percorrendo l'Appia. Prendo quel poco che ho, il formaggio che mi hanno donato i pastori, e partiamo».
«Giunone, madre delle madri e della nascita ci assisterà!».
«Si, Gaia, proprio così. Giunone ci guiderà! Dove hai le tue cose?».
«Ci eravamo rifugiate in una grotta, qui, lungo il fianco della montagna, una grotta circondata dal mirto. Mia madre, quel rifugio, lo chiamava "il mirteto"».
«Al mirteto, allora, e poi verso Roma. Addio Norba, città sepolta dalle ceneri del tradimento...».

Intorno al mirteto, secoli dopo, nascerà l'abbazia di Sant'Angelo...
Norba verrà riscoperta e dissotterrata solo dopo il 1901. Il lavoro prosegue ancora e, anno dopo anno, la città risorge dalle ceneri grazie al lavoro degli archeologi, raccontando storie ed emozioni come pochi posti al mondo sanno fare...

Foto di Marco Mastroleo.


Grazie a Gioconda Bartolotta per la revisione editoriale del racconto

Per saperne di più sul sito archeologico di Norba...
Ecco una mini guida redatta da Giulia Santoro
https://www.passeggiando.info/images/BLOG/STORIA/antica_norbadocx.pdf

Torneremo a scrivere di Norba e delle sue meraviglie, è una promessa!
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Giallo nella Palude redenta

Giallo nella Palude redenta

A proposito del romanzo di Antonio Scarsella

di Floriana Giancotti

Antonio Scarsella, in questa opera d’esordio, sceglie il giallo come genere letterario. Ma non un giallo alla moda, dove i cadaveri si susseguono, il sangue straborda e gli assassini sono degli psicopatici gravi figli più di Hitchock che di Freud. Il suo libro rientra nel genere, che già si può catalogare così, del giallo italiano. Un giallo d’ambiente, meditativo, storico, in cui l’investigatore mentre interroga luoghi e persone, interroga anche se stesso e l’indagine diventa un itinerario interiore di riflessione sugli uomini e sul potere.

Il romanzo inizia all’americana: c’è un cadavere di un uomo sotto un ponte, lungo l’argine di un canale di bonifica, ed il maresciallo Duilio Spadon, di origini venete come dice il cognome, deve sciogliere il mistero di un’intricata matassa. E così, proprio all’americana per stile e ritmo, comincia la ricerca.

Siamo in un capoluogo di provincia, Latina-Littoria, al centro dell’Agro redento, nel periodo che segue il secondo conflitto mondiale, quando la questione contadina era ancora uno dei problemi più importanti della vicenda nazionale. 

L’occupazione delle terre e gli scioperi alla rovescia  animavano la cronaca locale colorandosi, qui in Agro pontino, di una particolarità tutta interna alla storia di questo territorio, la conflittualità tra coloni assegnatari dei poderi dell’ONC e contadini poveri della collina lepina, che si erano sentiti espropriati delle terre della pianura e ne rivendicavano il possesso. 

La questione si complicava politicamente perché i coloni veneti assegnatari dei poderi votavano in massa per la Democrazia Cristiana, mentre i contadini poveri dei Lepini erano legati al Partito Comunista e al Partito Socialista, insomma i bianchi contro i rossi.

E’ questo il contesto in cui il maresciallo deve dipanare la sua matassa, mentre le indagini si fanno serrate e nutrono contemporaneamente la riflessione politico-filosofica che il giovane carabiniere ama. 

Questo è l’aspetto originale del romanzo: la riflessione storica scaturisce dalla vita quotidiana, dal confronto costante tra un vicino e lontano, tra un prima ed un poi.

Spadon è un carabiniere leale, “fedele nei secoli”, e perciò istintivamente rifiuta la pista politica delle indagini che subito viene imboccata da alcuni giornali locali e dai suoi superiori. 

Portare avanti il filo dei ragionamenti accumulando prove, in tempi brevi e con la sola forza delle sue analisi e della conoscenza del territorio, sarà la sua scommessa. 

Comincia così un doppio viaggio, quello in pianura, tra i poderi dell’ONC, per interrogare amici e familiari e quello sulle colline per inseguire le tracce di un disegno criminoso teso a nascondere le fila di un sistema di sottopotere che imbriglia la vita dei poveri coloni. 

Si realizza così un vero e proprio viaggio conoscitivo del territorio, dalla città razionalista, dalle sue piazze, i palazzi monumentali, i bar e le osterie che connotavano i luoghi, alla campagna: le migliare, l’Appia, la Pedemontana, i canali, i ponti, la ferrovia Velletri-Terracina, l’Abbazia di Valvisciolo, su su verso i paesi, Norma, Bassiano, Sezze. 

E mentre il paesaggio si apre sotto gli occhi del maresciallo, il suo orizzonte conoscitivo si allarga assieme all’orizzonte naturale che si allarga man mano che si guadagna in altezza.

E così camminando, fermandosi, osservando, il giovane arriva ad una prima certezza “gli uomini delle colline … abitavano dentro le mura … il colono invece viveva in campagna” questa distinzione apparentemente ovvia costruisce una differenza antropologica, è una differente percezione dello spazio e della relazione che modifica le modalità di vivere e costruire le azioni.

Antonio Scarsella è evidentemente catturato dalla storia di questo territorio, dal suo incrociarsi di vite, di situazioni, dalla mescolanza delle culture: i percorsi dell’indagine del commissario sono tutti occasioni per cercare di capire la conflittualità e varietà degli interessi che si confrontano e si scontrano sulle terre bonificate. 

Il rapporto tra pianura e collina è il filo rosso che tiene insieme i ragionamenti, suggerisce piste di ricerca per le indagini. Questo è il cuore della storia e della cronaca, nel tentativo di sfuggire agli stereotipi della Grande storia ed a quelli suggeriti dalle trame di potere che vorrebbero insabbiare la verità.

Il maresciallo Spadon, forte della sua fedeltà ai principi della Benemerita, forte della sua limpidezza e correttezza, osserva, riflette, si pone problemi, si fa domande, costruisce risposte. Risposte alle indagini, risposte alle domande che l’osservazione del territorio e degli uomini che lo abitano continuano a porre.

Il territorio è il deuteragonista del romanzo, una presenza costante nel racconto. 

Non è semplicemente sfondo o teatro dell’azione ma contiene i segni che spiegano la storia degli uomini:

«Il contadino sezzese pianta i carciofi, i pomodori, le melanzane, e poi li rivende cercando di ricavarne il maggior utile possibile. Il colono di Borgo Faiti alleva le vacche e consegna il latte a chi dice l’Opera, coltiva il mais, le bietole, il grano ma li consegna all’ammasso, agli stessi che gli hanno venduto i semi e i concimi e con i quali ha le cambiali agrarie. 
Il contadino di Sezze discute con gli altri contadini di come migliorare la propria esistenza, si mette in competizione. Il contadino del Faiti, invece, è da solo, lui con la sua famiglia, di fronte al concedente e al potere economico che lo governa. E il bisogno lo rende ancora più prigioniero di questo sistema».

Mentre la macchina del maresciallo si sposta attraverso le strade che solcano l’Agro redento o s’inerpica su quelle tortuose della collina, l’occhio indugia sul paesaggio, sui luoghi che lo nominano, così anche il lettore percorre quelle strade quei borghi, solca la pianura punteggiata dai poderi, sosta sulle piazze dei paesi, osserva costumi tradizioni ed uomini.

Si anima attorno a noi un mondo, tra le case coloniche si svelano rapporti, ora amorosi, ora nefasti, nei borghi e nelle osterie si raccolgono informazioni, si conoscono gli intrecci di interessi che funestano la vita dei coloni, si conosce la loro dignitosa povertà, il lavoro duro e costante, i lacci che li legano in una soggezione quasi senza scampo all’ONC ed ai Consorzi. Ed al centro c’è sempre la terra. L’atavico desiderio di diventarne proprietari, i sacrifici, le promesse, il riscatto, l’indebitamento, le speculazioni sul loro bisogno.

E poi l’opportunismo che non conosce cambiamento di regime: basta cambiare la camicia ed il mondo torna all’ordine di sempre,

La conclusione delle indagini è amara per il nostro maresciallo ed investe le sue scelte di vita. Così, mentre gli sembra di aver capito finalmente le caratteristiche di quel territorio che ha imparato ad amare, deve sperimentare un’incompatibilità tra la sua coscienza e la sua realtà lavorativa.

Insomma questo romanzo nasce come un giallo, ma diventa occasione per un’approfondita analisi sulla storia locale e sulle eterne caratteristiche del potere e dell’uomo in generale. Senza pedanteria, senza tracotanza interpretativa, con uno stile piacevole, con un ritmo incalzante che consente al lettore di non perdere mai di vista l’elemento “romanzesco” che ne giustifica la lettura.


SINOSSI

GIALLO NELLA PALUDE REDENTA, "Agnelli, lupi e figli delle tenebre" nella Latina dei primi anni Cinquanta
Di Antonio Scarsella, Atlantide Editore

C’è il cadavere di un uomo sotto un ponte, lungo l’argine di un canale di bonifica, e il maresciallo Duilio Spolon, di origini venete, deve sciogliere il mistero di un’intricata matassa. Siamo a Latina-Littoria, al centro dell’Agro redento, nel periodo che segue il secondo conflitto mondiale, quando la questione contadina era ancora uno dei problemi più importanti della vicenda nazionale.
L’occupazione delle terre e gli scioperi alla rovescia  animavano la cronaca locale colorandosi di una particolarità tutta interna alla storia di questo territorio: la conflittualità tra coloni assegnatari dei poderi dell’ONC e contadini poveri della collina lepina che si erano sentiti espropriati delle terre della pianura e ne rivendicavano il possesso.
La questione si complicava politicamente perché i coloni veneti assegnatari dei poderi votavano in massa per la Democrazia Cristiana, mentre i contadini poveri dei Lepini erano legati al Partito Comunista e al Partito Socialista, insomma i “bianchi” contro i “rossi”.
È questo il contesto in cui il maresciallo deve dipanare la sua matassa, mentre le indagini si fanno serrate e nutrono contemporaneamente la riflessione politico-filosofica che il giovane carabiniere ama e che lo porterà, contro la stampa locale e i suoi superiori, a percorrere un’impervia pista tracciata dal filo dei ragionamenti e delle analisi scaturiti dalla conoscenza dei luoghi e delle persone.
Un doppio viaggio, quello in pianura, tra i poderi dell’ONC, per interrogare amici e familiari delle vittime e quello sulle colline per inseguire le tracce di un disegno criminoso teso a nascondere le fila di un sistema di sottopotere che imbriglia la vita dei poveri coloni. Durante questo viaggio, il paesaggio si rivela agli occhi del maresciallo e rivela pure le differenze antropologiche, gli incroci di vite, la mescolanza delle culture, gli interessi che si confrontano e si scontrano sulle terre bonificate.
Il rapporto tra pianura e collina è il filo rosso che tiene insieme i ragionamenti, suggerisce piste di ricerca per le indagini. Il territorio è costantemente presente nel racconto, non semplice sfondo o teatro dell’azione ma colui che contiene i segni che spiegano la storia degli uomini.
Al centro c’è sempre la terra. L’atavico desiderio di diventarne proprietari, i sacrifici, le promesse, il riscatto, l’indebitamento, le speculazioni sul loro bisogno. E poi l’opportunismo che non conosce cambiamento di regime: basta cambiare la camicia ed il mondo torna all’ordine di sempre.
Un romanzo che nasce come un giallo ma diventa occasione per un’approfondita analisi sulla storia locale e sulle eterne caratteristiche del potere e dell’uomo in generale.


GIALLO NELLA PALUDE REDENTA è acquistabile nelle principali librerie di Latina e Provincia o direttamente dal sito dell'Editore, spedizione gratuita con Corriere, consegna in 3-4 giorni lavorativi.

https://www.atlantideditore.it/prodotto/giallo-nella-palude-redenta/

Grazie a Dario Petti e ad Atlantide Editore per la disponibilità nella realizzazione di questi articoli

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Di Scuola e di Vita, il diario del Prof Maulucci

Di scuola e di vita.

A proposito del libro di Giorgio Maulucci, Confesso di avere insegnato

Di Marco Mastroleo

Amo follemente la scuola! 

È sempre stato il luogo nel quale mi muovevo meglio, nel quale potevo e sapevo esprimermi, sono un fan dei banchi, delle cattedre, dei teatri, delle palestre fetenti e delle scale affollate all’ingresso e all’uscita. Non ho mai perso, mai, l’occasione di partecipare a mostre, recite, musical, giornalini, tornei… carri di Carnevale (sì, a scuola ho fatto anche quello, da buon massafrese!)... E quindi, non potevo perdermi l’occasione di raccontare “confesso di aver insegnato”, un libro di Giorgio Maulucci. 

Con Passeggiando sto provando a dare una voce, un volto e una storia da raccontare ai luoghi che ci circondano. Bhé, la Scuola, come luogo narrante, è sempre stata una grande dimenticata. Ai miei tempi (perché è da un po’ che non lo sento dire) si diceva: Ah, se questi muri potessero parlare… !
Esatto! È proprio questo lo spirito, dare voce ai muri. E le scuole ne hanno davvero tante, di storie da raccontare. 

Come quella volta in cui, racconta Maulucci:
“Un bel giorno arrivò una nuova impiegata di nome Venere, si aggiungeva a colleghi dai nomi altrettanto celebrati sommando i quali e variando gli addendi il prodotto risultava inequivocabilmente... classico.  Eppure l'equivoco si verificò, imbarazzante e divertente nello stesso tempo. Una mattina ricevo un ingegnere della Provincia per dirimere una questione strutturale riguardante l'Auditorium e la biblioteca a proposito della quale era opportuno interpellare la bibliotecaria. Chiesi di Cleopatra, mi risposero che, momentaneamente, era scesa da Cesare (un ausiliario), rivolgendomi al primo a portata di mano: "Per favore Antonio, recuperami Cleopatra, mi dicono che è andata da Cesare”.
L'ingegnere mi guardò perplesso sospettando di essere preso in giro, poco dopo, appurò che si trattava di soggetti realmente esistenti ed operanti a scuola. Compiaciuti del godibile intermezzo, chiarito all'istante il problema riguardo alla biblioteca, gli rappresentai la necessità di praticare un'apertura nel piccolo ambiente destinato a cabina di regia su di un lato del palcoscenico per consentirne la visuale, sentenziò che non era possibile trattandosi di muro portante. Il problema fu bellamente risolto da Peppino (marito di Teodora, altro valore aggiunto), da provetto carpentiere nei suoi anni di lavoro in Svizzera smenti l'ingegnere proponendo di intervenire salvo a non intaccare le anime di ferro nel cemento armato.”

LiceClassicoLatina

Liceo Classico Dante Alighieri di Latina

Ma il libro non racconta solo storie di scuola, in maniera diacronica percorre anche la storia della città di Latina, dagli anni ‘50 ad oggi e, tra un aneddoto e l’altro, si può sbirciare tra le fessure dei racconti e vedere Latina “crescere”.

A proposito degli anni ‘50:

“… luoghi familiari e rassicuranti. La prima e unica scuola di infanzia, l'asilo con le suore di S. Marco - le "cappellone", copricapo con svettanti ali inamidate - dove molti della mia età ricordano orgogliosi e felici di aver vissuto le ore migliori della loro infanzia; la Scuola Elementare di Piazza Dante, la Scuola Media in un'ala dell'omonimo Palazzo M con l'Istituto Magistrale al centro, il Ginnasio-Liceo "Dante Alighieri" nell'altra ala. Per noi giovinetti il riferimento della M a Mussolini era puramente casuale, poco o nulla sapevamo dell'origine e del valore degli edifici di fondazione o storici della città; sapevamo, certo, che era stata voluta e fondata dal duce, chi fossero i fascisti e i comunisti. Non ci rendevamo ancora conto, però, degli scempi edilizi iniziati a partire dagli anni Sessanta, quando in nome di una sommaria cancellazione dei fasti del Ventennio, in realtà, di una conclamata ignoranza e scellerata frenesia speculativa, furono demoliti edifici di fondazione di gran pregio. Nel 1962, l'originaria Casa dell'Agricoltura o del Contadino (architetto F. Di Fausto 1938) demenzialmente abbattuta per costruirvi un anonimo e grigio falansterio; a seguire, l'amputazione di un'ala del palazzo della Posta - l'elegante scaletta sottesa da un armonioso arco dove eravamo soliti giocare a nascondino (architetto A. Mazzoni, 1932) sostituita da un orrendo parallelepipedo in calcestruzzo armato, giustificato dalla pretestuosa necessità di ampliare gli uffici. La sparizione di quelle costruzioni è a tutt'oggi testimonianza della incultura e mancanza di senso estetico, da un lato, di una mentalità proto speculativa di palazzinari che hanno deformato la fisionomia di una città che avrebbe potuto vantare il primato e privi legio di "città ideale”. Di un centro turistico e balneare invidiabile, non fosse avvenuto lo scempio selvaggio della marina, che, allora, voleva dire Foce Verde. Allegro, a volte rocambolesco, l'arrembaggio mattutino di una folla festosa di grandi e piccoli con l'assalto alla diligenza (la corriera) per assicurarsi il posto sia all'andata sia al ritorno.”

E degli anni '60:

“Disco VERDE

Dal punto di vista formativo ed esperienziale, tra la libreria Raimondo e Musica Radio si colloca la storica "Casa del disco" di Danilo, in certo senso la mia "Casa Ricordi”. Inizialmente, si trovava sotto casa, accanto al portone d'ingresso, dunque, vi entravo ed uscivo a tutte le ore. Carlo (Musica Radio) era il commesso e consulente esperto e attento dei clienti. Danilo se ne intendeva, sempre aggiornato, l'unico in città a essere fornito di etichette discografiche di pregio …”

Tutto il libro è accompagnato da “fotografie” che raccontano di teatro, cinema e musica, sempre presenti anche nei racconti di vita vissuta. Si tratta di “chicche” da non perdere per chi ama questi mondi:

“... la bislacca "Tintarella di luna” (stesso anno) urlata, sincopata e singhiozzata da Mina. Un'estate, per caso, l'ascoltai dal vivo, a Porto Civitanova Marche, fulminato da quella ragazzona dai movimenti e gesti sussultori ed ondulatori, a buona ragione ribattezzata "la tigre di Cremona"; qualche anno dopo la rividi al Circeo, in una "Bussola" altra da quella ben nota. Decollata a cielo aperto sull'Italia cantando a gola spiegata quel poetico cielo immaginato da Gino Paoli …”

“la Ekberg era decisamente vistosa, anche lei come la Girardot a fior d'acqua. Nella celebre scena di seduzione del bel Marcello mi sembrò una donna angelicata, al di sopra di ogni scandaloso sospetto, venuta a Roma per mostrare innocentemente il suo seno e la sua sensualità. In una pausa riuscii ad avvicinare Fellini, che fu gentile; gli dissi di Foce Verde, mi sorrise compiaciuto, spari in fretta senza darmi il tempo per l'autografo. Andai a vedere il film a Nettuno - a Latina le prime visioni tardavano ad arrivare in un cinema affollatissimo e affumicatissimo, posti in piedi, i commenti tra i più disparati, il più rumoroso e insistente: “Nun ce se capisce un cazzo" contrappuntato da: "A bona!". …  Nel 1961 Pasolini gira "Accattone”, il suo primo film, debuttando come regista e cineasta già sui generis, uscito in concomitanza con la pubblicazione di uno dei suoi libri di poesia più intensi, "La religione del mio tempo". Ad "Accattone" seguiranno "Mamma Roma" con Anna Magnani, l'episodio "La ricotta" (in "Rogopag"). Tre film non solo di rottura ma di sconvolgente bellezza e autentica avanguardia, dunque, scandalosi e perciò guardati con sospetto e ostilità dall'Italia bigotta e paesana. Nello stesso anno mio padre inviava alla Agenzia Ansa, "Corriere della Sera" e "Gazzettino del Lazio" una notizia sensazionale: il già famoso scrittore e regista Pier Paolo Pasolini, sceso da una macchina presso un distributore in un negozio di alimentari di benzina, a San Felice Circeo, entrava in un negozio di alimentari minacciando con la pistola il giovanotto Bernardino De Santis - dietro il bancone - intimandogli di consegnargli l'incasso. Questi sporgeva denuncia contro il rapinatore presto identificato, condannato (nel 1962) a quindici giorni di arresto, amnistiato in appello. Uno strano caso che diede adito a un'infinità di congetture, soprattutto, per il credito dato dai carabinieri, poi, dal giudice al fantasioso racconto del testimone, paradossalmente cinematografico, gli uni e l'altro all'unisono in sintonia con il pregiudizio e l'avversione della italietta nei confronti di Pasolini. Ciononostante, in uno dei vari articoli sul fatto, mio padre commentava: "Sia nella zona di San Felice sia nel capoluogo sono rimasti in pochissimi tra l'opinione pubblica a credere alla drammatica rapina per procurarsi un paio di mila lire". Fu proprio durante il processo, a Latina, che vidi per la prima volta Pasolini. Mio padre lo avvicinò, imbarazzato lo salutai.”

E, non mancano, passaggi in cui storia del Cinema e del Teatro e storia della Città si incrociano.

“Ero a conoscenza che l'amico Franco Barbaresi, noto architetto in città, non estraneo al mondo del cinema (conosceva Fellini), aveva scritto la sceneggiatura per uno dei film girati da Vittorio Storaro abbinati ai volumi d'arte "Roma imago urbis” a cura della Zecca dello Stato. Perché non presentare al Liceo un prodotto di tal riguardo in cui era coinvolto un nostro concittadino e magari invitare Storaro? La macchina, grazie a Franco, fu messa immediatamente in moto. Perfezionato l'Auditorium nei primi, indispensabili accorgimenti (dopo le quinte lo schermo), fu contattato Storaro, pose una condizione: proiezione solo in pellicola (35mm) … Arrivò il gran giorno anzi, la grande serata con un parterre da Scala di Milano, rituale saluto del sindaco della città (Ajmone Finestra) il quale, estroverso ed immaginifico qual era, nel suo entusiastico saluto chiese al "fotografo" Storaro di fare qualche bella fotografia alla sua città (!).”

“Senza essere fatalisti sarà stato scritto da qualche parte che Latina dovesse essere il luogo di elezione della mia attività nella scuola, teatralmente e cinematograficamente conformato. Gli anni Ottanta l'hanno vista protagonista assoluta nella sua metafisica bellezza del film di Marco Ferreri "Storia di Piera" (1983), girato quasi interamente nella città di cui il regista sembra aver colto l'essenza restituendone un'immagine ideologicamente emblematica nelle sue architetture del Ventennio con lo svettante obelisco littorio (nel parco)!, esaltata e trasfigurata dalla superba fotografia in una metafisica città del futuro. Una sequenza fu girata nell'atrio dell'ancora esistente vecchio ospedale, poi, adibito a scuola (Liceo Scientifico "G.B. Grassi"), con alcune comparse del luogo, con esse l'attrice Lina Bernardi (pure di Latina), in un piccolo ruolo. Conobbi le due protagoniste, spigolosa la Huppert, più disponibile e spiritosa la Schygulla, le chiesi che impressione avesse della città a percorrerla in bici. "Una città misteriosa anche in piena luce", sentenziò aforisticamente.”

Storia di Piera 1983 Marco Ferreri recensione 932x460

Una scena del film "Storia di Piera", girato a Latina (https://quinlan.it/2018/12/23/storia-di-piera/)

Mentre leggevo questo diario, personale e pubblico allo stesso tempo, non potevo non pensare che, infondo, è proprio questo che dovrebbe fare un intellettuale: dare il suo punto di vista rispetto alle cose (come il mito della caverna di Platone insegna, tanto per rimanere sul classico!). E nella mente mi frullava, continuamente, un concetto che poi ho ritrovato nel libro stesso. E così lo riporto come formulato dal Professor Maulucci, che sa esprimerlo certamente meglio di come farei io e che, penso, lo abbia posto a fondamento di tutta la sua narrazione:

“Come uomo di scuola e cittadino, oggi, mi trovo a dover constatare, in parallelo, i destini incrociati di due realtà - la città e la scuola - che in cinquant'anni hanno certamente cambiato il vestito, non del tutto l'anima. Entrambe, infatti, rischiano di rimanere avvitate su sé stesse, ancorate a una tradizione scolorita dal tempo, ancora alla ricerca di un autore che consenta ad esse, nate vive, di vivere. La scuola, però, equiparabile a un gran teatro, ha la risorsa degli insegnanti grazie ai quali può ravvivarsi (tornare a vivere) giorno dopo giorno poiché loro, come gli attori, non smettono mai di essere tali. Infatti, loro restano e resteranno sempre legati alle tavole del palcoscenico (la cattedra), al pubblico (gli alunni), sempre pronti a rinnovare lo stupore tra "letteratura" e realtà.”


SINOSSI

ConfessoAvereInsegnato

Il diario (quasi segreto) di un viandante sfrontato, impertinente, provocatorio. Un “gioco” con persone e personaggi di una città nuova, della scuola, del paese Italia. Un mettersi in gioco per capire se hai vinto o hai perso. Un’escursione della memoria tra il sentimentale, il razionale e l’immaginario. Quasi un romanzo. Catullo l’avrebbe detto nugae (sciocchezze).


CONFESSO DI AVERE INSEGNATO, Diario di un viandante tra scuola, cinema e teatro di Giorgio Maulucci è acquistabile nelle principali librerie di Latina e Provincia o direttamente dal sito dell'Editore, spedizione gratuita con Corriere, consegna in 3-4 giorni lavorativi.

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Cinema, Teatro, Scuola, Magistrale, Liceo Classico, Sabaudia, San Felice Circeo, Anana Magnani, Pasolini, Foce Verde

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Mater Matuta

MATER MATUTA, Satricum

Di Marco Mastroleo Estratto da “Storie di Pietra ed acqua”

È arrivato il giorno. Aspettavo questo momento da quando, lo scorso inverno, mi hai chiesto come mai, invece di dormire in una casa, come gli altri, noi dormissimo nel Tempio. È arrivato il momento del racconto. Alla fine di questa storia lo saprai. Capirai perché sei l’unica bambina in mezzo a tante donne.

Qualche anno fa io vivevo laggiù, in una di quelle domus vicino alla porta ovest. Ero una schiava, polvere sotto i calzari dei padroni. Cantavo, ridevo e scherzavo e, mi dicevano, portavo allegria nella casa. Così sono diventata la preferita della Signora, mi portava sempre con sé, anche quando usciva per andare al mercato o nel Foro.

Così, quando arrivò l’11 Giugno, il giorno dei Matralia, mi disse che aveva una sorpresa per me e mi portò con lei qui, al Tempio.

Fu la prima volta che lo vidi così da vicino, questo immenso e magnifico palazzo. È così grande che tutti gli abitanti di Satricum possono vederlo anche solo alzando lo sguardo. Ma qui, all’interno del recinto, al cospetto della Madre, della nostra Mater Matuta, solo in poche hanno l’onore di accedere. 

L’11 Giugno è l’unico giorno dell’anno in cui i cittadini possono avvicinarsi al Tempio e partecipare a questa grande festa, la festa della Madre, i Matralia.

La Signora mi condusse addirittura all’interno del Tempio. Normalmente le fedeli possono accedere soltanto al portico; quello della Matuta gira intorno al Tempio solo su tre lati: sine postico, lo chiamano.

Io invece fui ammessa oltre le porte del Tempio. 

Ci accolsero Primigenia e Lumia, le due sacerdotesse. Rivolgendosi a me, dissero:

- Sei molto fortunata Sira, oggi sarai la regina della cerimonia, la protagonista del rito. Come sai, all’interno del Tempio, oggi, e solo oggi, potranno accedere le matrone univirae, donne libere, vergini o sposate al loro primo matrimonio. Al di fuori del Tempio, nel portico, verranno presentati i bambini nati grazie all’intercessione di Matuta, la nostra Madre, fonte del giorno e di ogni cosa che inizia, come una vita.

- Quindi io cosa ci faccio qui? 

Mentre mi raccontavano della bellezza di quei fregi, dell’onore di essere lì e di partecipare al rito e della importanza della Madre, tra una parola e l’altra si spiegarono meglio:

- Ad un certo punto... che belle queste terrecotte, guarda... una schiava... (“che sarei io”, pensai)... e questi colori? Hai mai visto degli intonaci più lisci e brillanti? Insomma, una schiava viene scacciata dal Tempio a colpi di frusta... che bella luce c’è oggi... e deve scappare via urlando...

Poi la mia giornata proseguì come da programma: attendendo le mie sacre frustate me ne stetti in disparte. Ascoltavo, osservavo e vagavo, godendomi lo spettacolo del Tempio per quell’unico giorno, perché, pensavo, in quel posto non avrei più messo piede.

La sera successiva ai Matralia il mondo cambiò.

Era un periodo di guerra. I Romani stavano tentando di nuovo di conquistare la città. 

Un giorno, il più lungo, tutto sembrava volgere a favore dei Romani. La porta ovest stava cedendo ed avevano cominciato a forzare anche la porta est, non pioveva da tanti giorni ed il cibo ormai, dopo quattro mesi chiusi tra le mura, cominciava a scarseggiare. I soldati erano allo stremo. Inoltre, dopo la festa dei Matralia, la statua della Mater Matuta era stata prestata a Circeii, dove era custodita nel Tempio di Circe, per via di un certo allineamento astrale che andava celebrato per bene, sul picco della montagna. Insomma, anche il morale era basso in città. Tutto faceva pensare ad una resa. Ed in realtà ci arrendemmo. Qualche anno dopo. Non quel giorno.

Quel giorno...

… prosegui la lettura del racconto su “Storie di Pietra ed acqua”


SINOSSI

“Questo libro è scritto… “con i piedi”! Perché è da lì che parte tutto: dai piedi e dai passi, uno dietro l’altro, delle lunghe camminate che conducono tutti i personaggi di questa raccolta di racconti preistorici da un luogo ad un altro, da un tempo ad un altro. Questo è, sì, un libro che parla di scienza e di archeologia ma lo fa affidandosi alle avventure di Mino, il piccolo Dinosauro cantastorie (ispirato alle impronte di Rio Martino), e a Sira, la sacerdotessa della Mater Matuta, passando per Gea, Circe e tanti altri. Lasciandosi trasportare dalla spasmodica ricerca della luce, nei meandri dell’oscurità, o dallo sciabordio dell’acqua, che tutto cela e tutto svela, o dai sussurri del vento, ognuno di noi potrà scoprire la faccia meno conosciuta dei luoghi che ci circondano… La faccia preistorica dell’Agro Pontino”.

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STORIE DI PIETRA ED ACQUA,La Preistoria nell'Agro Pontino

(di Marco Mastroleo. Atlantide Editore, 2019) è acquistabile nelle principali librerie di Latina e Provincia o direttamente dal sito dell'Editore, spedizione gratuita con Corriere, consegna in 3-4 giorni lavorativi.

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Le ferriere, borgo montello, astura, romani, latini, mater matuta, satricum, Latina

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Passo Genovese, c'era una volta un ponte

c'era una volta un ponte... il ponte di passo genovese

Una strana “riscoperta”

In queste poche righe vogliamo raccontarvi una storia insolita di “riscoperta” del patrimonio archeologico e culturale. 
È proprio vero: "quando vuoi nascondere qualcosa, mettila sotto gli occhi di tutti!". Diventerà parte del paesaggio, parte del tutto, e diventerà "invisibile"! 

È quello che succede ogni giorno con i nostri  oggetti, con i modi di fare, con le strutture, in sostanza con la cultura del quotidiano: con il passare del tempo sparisce, risucchiata dal nuovo e dall’abitudine.
Ecco perché quando qualcuno comincia a “ricordare”, in un certo senso è come se facesse una  scoperta, è come se quello che vede fosse del tutto “nuovo” anche se realisticamente non può che essere definito “vecchio”!
Si chiama “archeologia”, le sue fondamenta stanno tutte lì, nella riscoperta del vecchio che viene liberato dagli strati di abitudine che l’hanno ricoperto per anni, per secoli o addirittura per millenni.

È quello che è successo anche al ponte di Passo genovese. 

Era lì, sotto gli occhi di tutti i frequentatori di foce verde e del litorale di Latina ma poi, un po’ per incuria, un po' per via dell’abusivismo, un po' perché la foresta che componeva la cosiddetta “selva di Cisterna” prima della bonifica prepotentemente si riprende ogni spazio che le apparteneva quando viene lasciato incustodito … il ponte era scomparso, anche se è sempre rimasto lì ed anche se era “sotto gli occhi di tutti”.

Chi, quando e perché

È stato il gruppo di Protezione Civile “Passo Genovese” di Borgo Sabotino che lo ha “scoperto”, in tutti i sensi!
Sono passati più di dieci anni ormai: ad Ottobre del 2009, i volontari dell’associazione ripulirono il ponte da sterpi, arbusti e rifiuti per riportarlo alla luce, all’aria ... a respirare: un primo passo verso l’adozione di questo monumento.
Venni invitato a fare l'archeologo supervisore dei lavori e, per questo motivo, ho deciso di raccontare ancora una volta, a distanza di dieci anni, quello che è venuto fuori, perché penso che possa servire a qualcosa ed a qualcuno.
Penso che questo lavoro, infatti, abbia un notevole valore, sia dal punto di vista pratico che dal punto di vista simbolico.
Il lato pratico lo lascio al resto dell’articolo, quello simbolico eccolo qui. 

L’associazione ha scelto il ponte di passo genovese come suo simbolo, lo ha inserito nel nome ed anche nello stemma. Sembra una cosa banale ma non lo è, questo interesse nei confronti di un monumento è "notevole" e rispecchia quello che dovrebbe succedere normalmente nei confronti dei beni culturali, che sono il simbolo della nostra identità e del nostro territorio. Si tratta brutalmente di “marketing della cultura”. Serve a far circolare nomi e fatti che rendono più vicini questi monumenti al sentire collettivo. Chiunque avrà a che fare con la Protezione Civile di Borgo Sabotino si chiederà: perché “Passo Genovese”? Cos’è? E scoprirà un pezzo in più della sua storia e del suo territorio!
Se tutte le associazioni o le aziende facessero così, i Beni Culturali Italiani avrebbero valori inestimabili e noi non avremmo perso il senso dell’appartenenza e delle radici come invece stiamo facendo.

C’è anche un altro valore che sta dietro questo gesto: un valore “civile”.

L’area di foce verde non è sicuramente una “perla” della Provincia: inquinamento, centrale nucleare, Terna, progetti di porti faraonici e soprattutto, abusivismo edilizio ed abbandono sono le uniche parole che ti vengono in mente quando passi da lì. Di certo non viene da pensare a quel tratto di costa come ad un pezzo fondamentale della storia della Provincia, né ad un parco archeologico!

E poi i problemi sono tanti e vari che interessarsi alla tutela di un monumento non è certo la priorità, neanche se intorno ci costruiscono una baraccopoli abusiva ed una mezza discarica a cielo aperto!
”Pulire” un monumento in quella zona equivale a dire: noi teniamo a questo posto e, se ci teniamo, un motivo ci deve essere! 

         

 PASSO GENOVESE PRIMA DELLA PULIZIA

Un pezzo di storia da raccontare

Non si può certo dire che il ponte di passo genovese sia uno dei monumenti più importanti della zona, tuttavia, la sua presenza ha un pezzo significativo di storia da raccontarci, soprattutto per quello che oggi si chiama Borgo Sabotino.
Partiamo dal nome: Passo Genovese
Durante la bonifica integrale degli anni 20-30, tutti i borghi della provincia hanno perso il loro nome originario e sono stati ri-battezzati con i nomi delle battaglie principali della Prima Guerra Mondiale. Stessa sorte è toccata a Borgo Sabotino che, in precedenza, si chiamava Passo Genovese.

Non a caso, la toponomastica è una delle scienze che contribuiscono alla ricostruzione della storia dei luoghi.
Il fatto che quella zona si chiamasse Passo genovese lascia intendere che Genova vi abbia qualcosa a che fare.
Prima della bonifica, la zona era sotto lo Stato Pontificio, commerciava molto con i genovesi ed era nota in tutta Italia per tre aspetti strettamente legati alla palude stessa:

  • le bufale e la produzione di latte e mozzarelle.
  • Il legname di tipo forte delle foreste della allora “Macchia di Cisterna”, soprattutto querce, che Genova utilizzava per costruire le sue imbarcazioni
  • Il pesce di acqua dolce e salata che proveniva dai laghi, dagli stagni e dalle peschiere oltre che dal mare e che veniva trasportato a Roma, dove era molto apprezzato. 

L’intenso commercio con i genovesi era anche dovuto allo scambio di minerali metallici che loro portavano qui dall'isola d'Elba per alimentare Le Ferriere di Conca. Un rapporto privilegiato che ha dato il nome alla zona, sancito anche a livello formale dallo Stato Pontificio, anche a seguito di alcuni favori di guerra per i quali la Chiesa era debitrice. 

Borgo Sabotino in quanto tale, venne costituito come villaggio di appoggio per i lavori di bonifica che si dovevano realizzare nella zona. L’opera più importante era proprio l’apertura del tronco inferiore del Canale Mussolini, come sfocio a mare del Fosso Moscatello presso la torre di Foce Verde.
Il fosso Moscarello scendeva dai Colli Albani, e si “inpantanava” nella zona retrostante la duna marina fino a tracciarsi un vero e proprio alveo alle spalle della duna e parallelo alla costa.
A nord della torre di Foce Verde avveniva la stessa cosa con il Canale di Mastro Pietro, un derivatore del Fiume Astura che portava, anche attraverso il Moscatello, acqua dolce nel lago di Fogliano.
Si veniva a creare quindi, una vera e propria via acquatica, un sistema di collegamento in parte artificiale ed in parte naturale tra i vari fiumi e laghi costieri, quella che è stata chiamata “fossa Augusta”, la via di collegamento tra il litorale Romano (il Tevere) ed il Circeo (il Lago di Paola).

Il ponte di Passo Genovese serviva a “scavalcare” questi fossi (in particolare il Rio Giordanello) e consentire il carico delle navi genovesi (ma non solo) ormeggiate al largo, in mare.
Non si tratta quindi, di un vero e proprio ponte ma di un pontile di carico, un molo ed un “braccio murario” di collegamento tra il mare ad una probabile strada posta sulla duna quaternaria (quella dove ora scorre la via litoranea).

La parte in muratura del ponte di Passo Genovese (vedi architettura del ponte) passava probabilmente proprio sul fosso Moscarello, ora interrato e parallelo alla costa. Ecco perché l’andatura del ponte è perpendicolare alla costa e parallela all’attuale Foce verde. 

La strada di cui si ipotizza la presenza potrebbe essere stata la via Severiana.

La leggendaria Via Severiana era una strada litoranea di collegamento tra Roma ed il Circeo, fatta costruire o forse, più probabilmente “rintracciare e valorizzare” sulla base di un tracciato già esistente, da parte della dinastia dei Severi, gli imperatori che governarono Roma nel I sec d.C..
La via Severiana comprendeva diverse “stazio” (stazioni di posta, luoghi destinati al rifornimento ed al risposo), tra le quali molte possono essere riconosciute negli stessi posti in cui adesso sorgono Torre Astura, B.go Sabotino, la foce di Rio Martino (B.go Grappa),  e così via fino al Circeo a Torre Paola.
La via Severiana era importante perché serviva a collegare la costa pontina ed il suo sistema di laghi (dove, tra l’altro, sorgevano diverse ville romane) a Roma, con notevole movimento di merci, che avveniva sulle chiatte lungo la già citata “fossa augusta”. È evidente che il trasporto su carro doveva, in alcuni casi, essere molto più rapido di quello su chiatta trainata.

Come era fatto il ponte: l’architettura

Quello che vediamo adesso è il risultato finale di quello che potremmo definire un “restyling strutturale” del ponte avvenuto sotto Pio VI (1775 – 1799) 

Prima di essere in muratura, il ponte doveva essere in legno e doveva esistere già dall’epoca romana, contemporaneo alla via Severiana.

La struttura attuale ricalca i canoni dell’architettura settecentesca, è composto di tre parti realizzate con due tecniche costruttive diverse e forse se ne può ipotizzare una quarta: 

  • Prima parte: tra la duna ed il ponte, realizzata con la cosiddetta tecnica a sacco, ovvero un terrapieno foderato in pietra che doveva essere una vera e propria rampa o strada sopraelevata fino al ponte in muratura,
  • Seconda parte: al di sopra di un canale parallelo al mare, probabilmente un affluente del canale di foce verde, in muratura. Quattro archi in mattoncini realizzati su 4 pilastri in pietra con facciata in cortina decorata in pietra. 
  • Terza parte: un altro terrapieno che doveva superare il secondo livello di dune, più basse rispetto alla duna quaternaria.
  • Quarta parte: dal terrapieno al mare. Non essendoci resti né fonti che lo testimonino, possiamo solo ipotizzare la sua presenza. è in dubbio se fosse in muratura o in legno e doveva servire da vero e proprio molo di imbarco, passando sopra la spiaggia ed arrivando fino in mare. Non essendoci neanche resti delle fondamenta in pietra al largo, è possibile ipotizzare che fosse in legno come la prima versione del ponte.

In conclusione, questo posto della Provincia Pontina, è importante per quattro ragioni:

  • è la testimonianza di una realtà pre - bonifica fondamentale per l’economia della zona: lo sfruttamento della già citata “selva di Cisterna” come fonte di legname. 
  • dimostra l’esistenza di un discreto traffico di merci tra la terraferma ed il mare
  • dimostra probabilmente l’esistenza di una via di comunicazione di una certa importanza, quella che qualcuno ha riconosciuto come la via Severiana.
  • è la testimonianza dell’esistenza di una idrografia complessa (sia naturale che artificiale) che doveva tenere collegati i laghi con i fiumi e le coste.

Lavoro di pulizia e scelte tecniche

I problemi che si affrontano quando si decide di pulire un monumento sono soprattutto di carattere conservativo. Quando si va a togliere l’involucro di piante, spazzatura e terra che lo hanno ricoperto per anni si corre il rischio di “esporlo” di più alle intemperie ed al vandalismo. Anche se è brutto dirlo, quando un monumento è sepolto, si conserva meglio e può sopravvivere più a lungo. 

Ecco perché bisogna fare molta attenzione ed avere una certa lungimiranza, senza esagerare e pulire troppo.
I volontari della Protezione Civile, con ruspe, motoseghe e roncole hanno eliminato tutti gli arbusti, i giunchi e le canne che crescevano sopra ed intorno al monumento ma, insieme, abbiamo deciso di lasciare in loco le radici degli arbusti e di tenerle sotto controllo lasciandogli continuare quel lavoro di imbrigliamento delle strutture che hanno fatto così bene negli ultimi anni. Abbiamo deciso inoltre di lasciare un letto di terra e muschio sulla sommità del ponte che aiuti a proteggerlo dalle intemperie. I fianchi invece sono stati puliti del tutto per lasciarli respirare ed asciugare ed è scavato un canaletto per il deflusso delle acque stagnanti verso i vicini canali di deflusso per evitare il ricrearsi di quelle terribili mini-paludi che stavano inzuppando le gambe del ponte.

 

OPERAZIONI DI PULIZIA DEL PONTE e PONTE A LAVORO FINITO

La domanda finale

Se questo fosse un quiz, questa sarebbe la domanda finale, quella a cui, se rispondi bene, vinci cifre esorbitanti: e dopo? Cosa è successo dopo la pulizia?
L’associazione decise di “adottare” il ponte, che si tradusse in: ci pensiamo noi a tenerlo pulito ed a valorizzarlo per bene. Ed, in effetti, con iniziative di pubblicità e di pulizia, ci stanno pensando loro. 
Si tratta indubbiamente di una azione nobile e riguardevole ma io mi chiedo: basta? 

Nel senso, può una associazione di volontariato impegnarsi a tempo indeterminato per la salvaguardia e la tutela di un monumento? E soprattutto, spetta davvero a loro farlo? Hanno i mezzi e le competenze necessarie?

È vero che non stiamo parlando del Colosseo ma la domanda è quella che tutti coloro che si occupano di Beni Culturali in Italia si trovano a fare di frequente: Dov’è finito lo Stato? Che dovrebbe salvaguardare il patrimonio pubblico attraverso risorse specifiche ed istituzioni che trà l’altro già esistono!
La verità è che questo tipo di azioni fatte da parte dei privati sono lodevoli ma se le facesse lo Stato sarebbe parte del suo dovere Costituzionale!

In conclusione la domanda rimane: cosa ne sarà del ponte di passo genovese? Verrà restaurato? Le costruzioni abusive che sorgono intorno (a ridosso della spiaggia e quindi anche a rischio idrogeologico) verranno abbattute? I terreni di accesso al ponte che attualmente sono incredibilmente privati (stiamo parlando di un pezzo della duna quaternaria, parte del demanio dello Stato), verranno espropriati? Il ponte sarà accessibile e fruibile?

Per ora, la risposta è: forse, chissà... speriamo, non per il momento... un'altra occasione caduta nel vuoto!


di Marco Mastroleo

Gran parte dei dati storici provengono dal prezioso lavoro di Francesco Tetro.
In particolare, per la redazione di questo articolo, ho consultato:
Paola de Paolis – Francesco Tetro, La Via Severiana. Da Astura a Torre Paola, Regione Lazio Ente Provinciale per il Turismo Latina, 1986 

PER MAGGIORI INFORMAZIONI SULL'ASSOCIAZIONE PASSO GENOVESE E SUL PONTE, VISITATE IL SITO http://www.passogenovese.org

Archeologia, Protezione Civile, Latina Lido, Foce Verde, Latina, Selva di Cisterna, Stato Pontificio, Genova, borgo sabotino, Via Severiana

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da un'idea di Marco Mastroleo

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