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Ceneri su Norba

CENERI SU NORBA

Un racconto di Marco Mastroleo, ispirato alle vicende del sito archeologico di Norba

Novembre 82 a.C.

Una manciata di cenere si alza in volo, si disperde veloce nel vento, nelle correnti che la trascinano su, sempre più su, seguendo le piste tracciate dai falchi e dalle aquile.
Da lì, dal cielo, i granelli di cenere guardano in giù. Un tempo, quelle particelle erano parte di un corpo, frammenti di una persona. Erano, insomma, un pezzo dell’insieme che, suonando e “personando”, vibrando in sintonia, compiva quel miracolo che ci accompagna ogni giorno e del quale, a volte, dimentichiamo l’importanza: la vita.
Un tempo, quei granelli di cenere erano vita…
La mano che li ha lanciati nel vento è ancora aperta, laggiù, sembra non voler lasciarli andare, sembra che un filo invisibile, ancora, leghi quella mano al loro vagare nel cielo. È un saluto, un addio, un abbraccio, scambiato attraverso il vento, al tramonto di una giornata di sole e di una vita splendida…
Seguendo quel filo, un alito di vento torna in basso, incuriosito da questa storia. Non gliene capitano spesso di storie così, impegnato com’è, sempre, su quella rupe, a portare in volo rapaci, passeri, storni e insetti. A portare in volo la vita.
Non gli era mai capitato prima, di innalzare in volo quel che rimane dopo la morte!
Ed è seguendo la vita, come ha sempre fatto, che il vento arriva a quella mano, l’accarezza e la circonda, scende, lungo il braccio, giù fino al petto, si insinua tra le pieghe della tunica e scorre rapido fino al cuore.
Si trattiene per un momento, il tempo necessario per assorbire tutto il calore in eccesso, che era fermo lì, come un tappo. Poi, veloce e leggero come si addice al suo essere, scorre via disperdendosi di nuovo tra le braccia e il collo e liberando, una volta per tutte, quel corpo dal dolore che fino a quel momento lo aveva tenuto fermo su quel che rimane del terrazzo del Tempio di Giunone Lucina.

Il corpo cade, stravolto, in ginocchio, e si rompe in un pianto intenso, liberatorio, finale…


Tre mesi prima…

Un esercito di soldati romani è alle porte della città romana di Norba.
Il conflitto, che va avanti dall’88 a.C., nell’ultimo anno è diventato una delle peggiori guerre civili che Roma abbia mai affrontato, a dir poco travolgente. L’esercito di Silla, di ritorno da una guerra in Grecia, nell’83 è sbarcato a Brindisi e, risalendo verso Roma, ha piano piano conquistato la Puglia, il Piceno e la Campania, dove si è stabilito assediando Capua, in mano ai democratici di Mario.
Passato l’inverno, con l’arrivo dell’estate, Silla ha ricominciato la sua salita verso Roma. Si è diretto a Preneste, dove si trovava il grosso dell’esercito di Mario e, dopo averla presa, ha inviato il suo luogotenente Emilio Lepido ad assediare Norba…
Lucio Cornelio Silla, capo degli optimates, sta combattendo contro Gaio Mario, capo dei populares. L’oligarchia di Silla contro la democrazia di Mario; il potere “ai migliori”, sostenuto da Silla, contro il potere esteso al popolo, tramite i tribuni della plebe, come sosteneva la faziones di Mario.
Norba era una roccaforte militare, con mura di pietra altissime, arroccata su un altopiano roccioso che domina la Pianura Pontina da Roma al Circeo, una città nata dalla guerra e per la guerra. Norba non sarebbe caduta, come non era mai caduta prima di allora, se non per mano di un traditore.
Appiano di Alessandria racconta:
«Norba resistette ancora aspramente, finché Emilio Lepido penetrò in essa di notte a causa di un tradimento. Degli abitanti, inferociti per il tradimento, alcuni si suicidarono, altri si uccisero tra di loro, altri si impiccarono. Altri ancora, bloccate le porte delle case, vi appiccarono il fuoco… un vento sorto violentissimo a tal punto alimentò le fiamme che nessun bottino si ricavò dalla città. Costoro morirono dunque così, da forti.»
Norba finì, per un tradimento, letteralmente in fumo…


Novembre 82 a.C.

«Sono qui con te, Gaia, amica mia, alzati. Hai superato momenti peggiori, non sarà questo che ti abbatterà. La vita va avanti...» sussurrò il vento.
«Le ceneri di mia madre sono ancora calde e tu mi dici che dovrei pensare alla vita? Alla vita!? Tre mesi fa la guerra ci ha portato via tutto. Io e lei abbiamo vagato per giorni senza sapere dove andare, affamate e sole. Siamo sopravvissute al terrore dell’incendio ed alla distruzione che i soldati di Silla hanno portato solo perché sapevamo come uscire dalla città di nascosto. Siamo state in gamba, sì, delle vere romane. Lucide e fredde. Abbiamo lasciato i nostri uomini qui a bruciare e abbiamo usato le nostre conoscenze per salvarci. Anni passati a trasportare l’acqua dal fiume Ninfa alla città, lungo questi sentieri, ci hanno rese esperte… Conoscevo ogni fenditura, ogni passaggio, ogni foro, di queste mura, e sapevo come uscirne, di notte, inseguita dalle fiamme che stavano trasformando la città in lava pura… Sono scappata via, come una vigliacca, abbandonando qui la mia vita...».
«Come tutti noi! Non sei stata la sola...». Mentre Gaia parlava al vento, alle sue spalle comparve una ragazza: capelli castani legati in lunghe trecce, occhi intensi e volto segnato, scavato dalle privazioni di mesi di carestia.
«Oh, salve… parlavo... con la Dea...» disse Gaia nascondendo il viso tra i capelli, mentre abbassava lo sguardo. «Tu devi essere una sacerdotessa di Giunone, immagino...».
«Mi chiamo Aelia e, sì, ero una sacerdotessa di Giunone Lucina. Anche io sono scappata… pur senza scappare. Io non ho avuto il coraggio di lasciare questo tempio. Non ho avuto il coraggio di voltare le spalle alla mia vecchia vita. Non ho avuto il coraggio di cambiare! E sono rimasta qui, bloccata su questa rupe… per mesi...».
«È difficile separarsi da questa rupe, da questa vista. Ti capisco, Aelia. Queste che ancora scorrono tra le mie mani sono le ceneri di mia madre. Anche lei non voleva lasciare queste rupi, è, quando è giunto il momento, ho voluto salutarla qui. È in questo vento, tra le sue spire, il suo posto!».
«E, oltre a tua madre, chi hai lasciato qui, su queste rupi? Il tuo turbamento è più profondo...».
«Viro… È morto difendendo la città… Mio marito…» sospirò. Gaia si rese conto che questa era la prima volta che ne parlava. E man mano che le uscivano le parole, il suo corpo diventava più leggero, il piombo fuso che sentiva nello stomaco scendeva lungo le gambe e piano piano penetrava tra le pieghe della roccia su cui era poggiata.
Aelia la seguí: «Per anni ho animato il fuoco, l'ho tenuto sempre vivo, ho lasciato che fosse il mio unico scopo: tenere acceso il fuoco di Giunone. Qui, su questa terrazza che domina il mondo… O, almeno, tutto il mondo che conosco!».
«Vai avanti, Aelia, anche tu hai un peso di cui liberarti» incalzò Gaia.
«Il fuoco, il sacro fuoco… ed io che del fuoco ero la guardiana… Proprio il fuoco, la mia fonte di vita, è venuto a togliermela...».
Aelia era provata, ed anche lei cadde in ginocchio, con gli occhi rivolti alla pianura, mentre il vento, turbinando, sollevava ceneri e polvere verso il cielo.
«Ecco, il vento si è portato via il nostro dolore» disse Gaia, ammirando la spira di polvere e cenere salire verso il cielo. «Lo ha portato via come ha fatto con le ceneri di mia madre… e con quelle di tutti coloro che conoscevo» terminò, con due lacrime che le solcavano le guance, come una parentesi che cinge una frase.
«E la nostra storia. Si è portato via anche la nostra storia. Norba scomparirà nel vento...». Aelia si alzò, come presa da una nuova energia, come sollevata dal vento stesso, come fanno gli uccelli lungo i bordi di quella rupe. I suoi vestiti grigi, un tempo bianchi, sventolavano come una bandiera. Prese Gaia per mano e la fece alzare, a sua volta.
«Gaia, questo è un giorno speciale. Giunone mi ha portato te e la tua storia. E il vento, che ha portato via la cenere… È un segno che voglio cogliere. Sono stata cenere anche io per troppo tempo. È ora di risorgere. Andiamo. Lasciamo questa rupe. Non è più il nostro posto ormai. Andiamo. Partiamo insieme!».
«Ma… per andare dove?».
«A Roma. Andremo a Roma, percorrendo l'Appia. Prendo quel poco che ho, il formaggio che mi hanno donato i pastori, e partiamo».
«Giunone, madre delle madri e della nascita ci assisterà!».
«Si, Gaia, proprio così. Giunone ci guiderà! Dove hai le tue cose?».
«Ci eravamo rifugiate in una grotta, qui, lungo il fianco della montagna, una grotta circondata dal mirto. Mia madre, quel rifugio, lo chiamava "il mirteto"».
«Al mirteto, allora, e poi verso Roma. Addio Norba, città sepolta dalle ceneri del tradimento...».

Intorno al mirteto, secoli dopo, nascerà l'abbazia di Sant'Angelo...
Norba verrà riscoperta e dissotterrata solo dopo il 1901. Il lavoro prosegue ancora e, anno dopo anno, la città risorge dalle ceneri grazie al lavoro degli archeologi, raccontando storie ed emozioni come pochi posti al mondo sanno fare...

Foto di Marco Mastroleo.


Grazie a Gioconda Bartolotta per la revisione editoriale del racconto

Per saperne di più sul sito archeologico di Norba...
Ecco una mini guida redatta da Giulia Santoro
https://www.passeggiando.info/images/BLOG/STORIA/antica_norbadocx.pdf

Torneremo a scrivere di Norba e delle sue meraviglie, è una promessa!

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