GIORNO 4: LE PIANTE

Le emozioni stancano quasi quanto il mare. O forse le emozioni ed il mare sono la stessa cosa per chi vive su un’isola. Fatto sta che il giorno seguente, il quarto giorno dall’inizio del viaggio, il gruppo è fiacco, provato. Dopo una giornata come quella trascorsa, alzarsi e cominciarne una nuova è complicato. È duro riprendere il cammino e lasciarsi coinvolgere da altro.

In questi casi, in un gruppo, per sollevare l'umore, ci vuole una vitamina. La vitamina di Clorofilìa, oggi, è la “vitamina S”. Sara prende in mano la situazione e prova a riportare energia. È la matematica del gruppo, sconclusionata e distratta, quasi sempre. Fricchettona, direbbe Gino. Eppure, in una giornata come questa, è proprio della grinta di Sara che c’è bisogno.

Sara Li Conti, moglie di Flavio, quando ha bisogno di darsi una motivazione, canta! Così comincia a cantare. A squarciagola! Il punto è che nessuno capisce cosa canti davvero. È come quando ci si ficca in testa il ritornello di una canzone in inglese della quale non si conoscono le parole. Viene fuori una specie di lingua primordiale, un misto di tutte le lingue del mondo, che di certo non è inglese, e della canzone a cui vuole assomigliare ha solo qualcosa che ne ricorda la melodia.

Tutti cantano così, in privato, e non lo farebbero mai in pubblico. Tutti tranne Sara! Sara canta, e canta a squarciagola, e attraversa il campo improvvisato cantando in questo modo assurdo.

Ridendo e facendosi coinvolgere, tutti si mettono in movimento, cantando. Cosa cantino lo sanno solo loro, ma cantano, e questo è ciò che conta! La "vitamina S" ha funzionato.

Cala Feola, per una mattina, oltre ad essere un campeggio, diventa il luogo in cui nascono nuove lingue! Ognuno ci mette del suo. In pochi minuti, tutti cominciano a fare colazione ed a prepararsi per affrontare questa nuova giornata. Ridendo.

Chi prepara un caffè sulla cucina elettrica ad induzione collegata a Fùfilo (ovviamente frutto dell’ingegno “praticone” di Arianna), chi mangia biscotti in riva al mare e chi, come Michele, che dal mare non riesce a stare lontano, si tuffa per “darsi la sveglia”.

Nel piccolo campo non manca nulla, grazie a Fùfilo. Quella dei robot è stata la più grande innovazione di questi ultimi anni. Hanno rivoluzionato la vita quasi quanto i cellulari e gli smartphone negli anni Duemila. Fùfilo trasporta pesi, ha una grande batteria a cui collegarsi per ricaricare i vari congegni elettrici o elettronici, non si lamenta mai ed arriva dappertutto. I robot da lavoro sono entrati prepotentemente a far parte della vita quotidiana di quasi tutti, se ne trovano di mille tipi in giro per il mondo. Qualcuno li tratta come animali domestici e se li porta “a spasso” come cani… i soliti deviazionismi dell’essere umano…
E pensare che, ancora nel 2020, intorno alle macchine ed all’intelligenza artificiale c’erano un sacco di pregiudizi. Noi uomini siamo, inconsciamente, talmente spaventati dalla nostra capacità di distruggere, dominare e sottomettere, che “proiettiamo” questo timore nei confronti delle macchine, come se portare distruzione e imporre dominio e sottomissione fosse una loro prerogativa, non nostra. E, così, finiamo con l’esserne spaventati . Ma le macchine non sono così, non sono umane. E fino ad ora, con loro, è andata decisamente bene.
Un campo “leggero” come questo non sarebbe stato possibile fino a pochi anni fa se non caricando sulle spalle di tutti grandi pesi e attrezzature. E invece, è il quarto giorno di cammino e sono tutti freschi, ben nutriti e non troppo stanchi. 

Sono pronti, inizia una nuova giornata. In marcia, ché si va!

Sara guida il gruppo. Risalgono da Cala Feola fino a raggiungere Campo Inglese, sotto Monte Tre Venti. Da lì si vede tutta la “cresta” dell’isola.

– Questa diavolo di cresta è stata il mio incubo per ben tre anni!

– Perché zia Sara?

– Perché è il punto in cui è stato più faticoso sistemare il nostro acquedotto. Conoscete la storia dell’acquedotto, vero? Bellissima, ambiziosa… «Il recupero dell’ingegno dei Romani al servizio del futuro». Zio Aurelio è un mago nel creare slogan… però, senza di me ed i miei calcoli, i nostri magnifici scienziati starebbero ancora lì a scavare, sperando di recuperare qualche goccio d’acqua da una struttura fatiscente!

– Dai, Sara, non puoi giocartela così. E che cavolo! Offendi la nostra dignità di archeologi!

– Francesca, nessuna offesa. Lo sappiamo bene tutti, qui. Aurelio è un genio, un visionario, il regista di tutto questo… Ma non ha la più pallida idea di come si faccia a fare qualunque cosa di pratico! E tu, tu sei stata la mente sopraffina che ha guidato tutto. Senza i tuoi progetti ed i tuoi studi non sarebbe stato possibile rimettere in funzione un acquedotto fermo da 2000 anni. Bisognava studiare le tecniche, le murature, le tradizioni che hanno seguito i Romani nel costruirlo, leggere le strutture… Però…

– Alt, fermi tutti! Pausa. Qui manca la premessa!

– Eccolo… Attacca, Aurè!

– Gino, per piacere, un minuto! ’Sti ragazzetti manco se l’immaginano come funzionava qui, sull’isola, prima di Clorofilìa!

– Che intendi, papà?

– Elettra, sai da dove prendevano l’acqua i ponzesi fino a quindici anni fa?

– Dalle sorgenti?

– Sorgenti? No, con c’erano più sorgenti sull’isola. Tutte estinte! La prendevano da Formia.

– Se, vabbè! È impossibile! E come facevano a portarla qui? Con un acquedotto sottomarino?

– Bella questa! No, l'acqua arrivava in nave, tutti i giorni.
I bambini rimangono a bocca aperta: in nave?

– Sì, ogni giorno una nave con un mega-serbatoio arrivava qui sull’isola ed attraccava vicino al porto, o vicino a “O’ Core”, in base a come tirava il mare, si collegava con un’enorme proboscide all’acquedotto dell’isola e pompava l’acqua in circolo, portandola dappertutto.

– Vabbè, non è possibile. È un sistema assurdo!

– È esattamente quello che ho pensato io. Mi sono detto: se Ponza, in passato, come vi ha raccontato Francesca due sere fa, è sempre stata un attracco per fare rifornimento di acqua, perché adesso deve avvenire esattamente il contrario? Perché prima l’acqua c’era e ora non c’è più?

– Eh! Perché?

– Perché i ponzesi avevano dimenticato come fare per recuperare tutta l’acqua che scorre nelle vene dell’isola.

Un attimo! Pausa.
Non amo interrompere il “flusso” di parole ed emozioni che sono scaturiti in questo viaggio. Mi piace lasciare la storia così com’è, come “è uscita” dalla realtà. Però, a questo punto, è importante che dica qualcosa.
La giornata era cominciata lenta e assonnata, un po’ in sordina, ma, arrivati qui sulla cresta, la storia ha assunto tutto un altro sapore.
Fino ad ora non abbiamo mai parlato realmente di cosa sia Clorofilìa. Di cosa significhi davvero questo progetto e di come sia nato. E soprattutto: perché qui a Ponza? Perché così tanta ostinazione?
Proprio per questa idea incredibilmente romantica (anche in senso letterario) del recupero dell’acquedotto. È stato questo il centro del progetto, il filo conduttore, l’anima di tutte le altre idee. Il discorso si fa eccitante! 

Quindi interviene Chiara, è la sua materia.

– Se non ci fosse acqua, non potrebbero esserci gli alberi, e i fiumiciattoli che si gonfiano durante le piogge. Non si potrebbe fare agricoltura. Se non ci fosse acqua, Ponza sarebbe un’isola deserta! Ma così non è, e così non era prima di Clorofilìa. L’acqua c’era, solo che bisognava andare a prenderla nei posti giusti. 

– Ed in questo i Romani erano dei maestri! Avevano imparato tutte le tecniche nate tra Mediterraneo e Medio Oriente in millenni di ingegno, ed erano bravissimi nell’applicarle sempre nel modo migliore.

– Esatto, Francesca. Ho pensato esattamente questo quando, con Michele, siamo venuti qui per la prima volta, in vacanza: se lo sapevano fare i Romani 2000 anni fa, perché non possiamo farlo noi?

– Così, tornati a Roma, io e Aurelio abbiamo cominciato a parlarne con tutti: professori, imprenditori, colleghi, amici. Era diventata la nostra mania. Così abbiamo conosciuto te, Francesca. Ti ricordi? Ti hanno presentata come “un genio dell’architettura romana”, la regina degli acquedotti!

– Michele, se non fosse stato per il fatto che mi sei sempre subito sembrato simpatico … carogna … non vi avrei neanche ascoltati.

– Eppure, dopo ben tre anni di scavi, restauri e progetti faraonici, di questo acquedotto non funzionava ancora nulla!

– Sara, stai smaniando… Ti scappa proprio, devi raccontarlo tu! Dai, sfogati!

– Grazie, Aurelio. Mi scappa, lo ammetto, devo raccontarlo io… Come sapete, sono una matematica. E, vi chiederete, che ci fa una matematica su un’isola, a recuperare vecchi acquedotti? Mi piacciono le sfide. Ecco tutto! Un giorno, mentre ero in giro con Flavio, abbiamo preso un caffè con Aurelio e Michele, in un bar vicino all’Università. I due, poveri, si sfogavano di come questa cosa, per quanti soldi ci stessero spendendo, proprio non funzionava. Flavio, che ora è mio marito, lo sopporto da quando aveva 23 anni e mi ha sempre ossessionato con i suoi calcoli su quanta acqua consumassero le piante, sulla importanza dell’irrigazione fatta bene, eccetera. Roba da agronomi! Il difetto di questi uomini, questi tecnici, è che non riescono mai a vedere le cose nel loro insieme. Lavoro che spetta agli scienziati puri, come noi matematici. E glielo dissi subito: “Vi mancano le piante! L’acqua piovana scorre via veloce, senza riuscire a fermarsi nelle maglie dell’acquedotto” . Mi guardarono come tre pesci: a bocca aperta.

Così, la mania di Aurelio, Michele e Francesca, divenne anche la nostra mania, mia e di Flavio: trovare il modo per rimettere in funzione l’acquedotto romano di Ponza!

– Fermi tutti. Mo parlo io. Questa è roba mia! Lo sapete perché si chiama “progetto Clorofilìa”?

– Per quello che ha detto zio Aurelio il primo giorno! Perché dipendiamo tutti dalla clorofilla, che trasforma la luce in energia e nutrimento per gli esseri viventi…

– Sì, certo, Mattia. Giusto! Però, il nome Clorofilìa, all'inizio, indicava solo una parte di questo progetto: la riforestazione. Come diceva Sara, per far funzionare l'acquedotto, per raccogliere bene l'acqua piovana, servivano radici, tante radici! Ma a Ponza c'erano per lo più cespugli di macchia mediterranea. Bellissima, ma poco efficiente nel trattenere acqua. Servivano alberi, tanti, tanti alberi.

– Scusate se mi intrometto, ma come fanno queste povere creature a capire queste storie se prima non gli spieghiamo come funzionava l'acquedotto al tempo dei Romani?

– Infatti Zia Fra, come?

– È facile! Cioè, spiegarlo è facile. Per capirlo, però, ci sono voluti anni di studio e di riflessione… Eppure, in passato, le cose più efficienti erano anche le più facili da capire.

– Daje, Francè!

– Grazie, Gino…

E tutto questo, questo dialogo concitato, avviene sotto il sole cocente di giugno, lungo la strada, mentre i nostri “matti” si sorpassano, si sovrappongono, si spingono come marmocchi. Come se fossero ad un convegno, smaniando per poter parlare. Ed invece stanno solo raccontando la loro storia ai loro figli, il loro pubblico migliore…
Francesca domina tutti con la sua “logica”.

– Primo: a Ponza, in epoca preromana c'erano solo due sorgenti, molto piccole e più o meno abbondanti in base alle piogge invernali. Più pioveva d'inverno, più acqua sgorgava dalle sorgenti. Poi, in epoca romana, qui arrivarono un sacco di persone, e le due sorgenti, da sole, non bastarono più a dissetare tutti. Bisognava trovare una soluzione.

Secondo: a Ponza, durante l'anno pioveva, e piove, poco, quindi raccogliere l'acqua piovana con i tetti delle case, con i terrazzi e, per caduta, accumularla nelle cisterne , era una buona soluzione ma, ancora una volta, non era sufficiente. Tutte le case antiche di Ponza avevano la loro piccola cisterna ma spesso non bastava per tutta la stagione secca.

Ed ecco la riflessione che hanno fatto i Romani, secondo me: se i tetti delle case non bastano a recuperare l'acqua necessaria, facciamo diventare TUTTA L'ISOLA un enorme tetto per raccogliere l'acqua quando piove… 

E ancora: qui le piogge sono intense, anche se piove pochi giorni all’anno, dunque l' “Isola-tetto” può captare tanta acqua. Ma proprio perché le precipitazioni sono concentrate in poco tempo, non solo bisogna raccogliere l’acqua quando cade ma bisogna anche conservarla da qualche parte per quando servirà!

– Ho capito! Zia Fra, ho capito! Hanno costruito delle cisterne enormi, come quelle che usavano per le case, ma molto, molto più grandi. Per raccogliere tutta l'acqua che l’Isola-tetto raccoglieva durante le piogge!

– Bravo, Mattia. Proprio così, sia a Ponza Porto che negli altri abitati ci sono cisterne antichissime. Però, non mi avete detto come hanno fatto a trasformare l'isola in un’Isola-tetto!

– Con gli acquedotti, è ovvio! Ce l'ha detto zia Sara prima.

Mattia è il più piccolo del gruppo, insieme a Luca. È il figlio di Chiara Pietrabella, del padre di Mattia nulla è dato sapere. Mattia è allegro e vivace, non sta fermo un attimo, parla molto velocemente e ha due occhi intensi che lo fanno sembrare sempre sorridente. Mattia ascolta poco, di solito. Ma questa storia no! Questa è la “loro” storia...

– Sì, Mattia. Però, prima abbiamo detto anche un'altra cosa, che l'acqua scorre "nelle vene" dell'isola…

— Quindi l'acquedotto funziona come il sistema circolatorio umano, l’acqua passa dai vasi più piccoli a quelli più grandi e viceversa...

— E le cisterne sono come il cuore... Fico!

– Ettore, mi sto commuovendo, da quando sei nato, questa è la prima volta che pronunci una frase poetica. Potrei svenire…

– Papà, il sistema circolatorio è "scienza"...

– Non ce la faremo mai...

La risata del gruppo rimbomba sotto Monte Tre Venti. Tutti sono allegri ed eccitati, nonostante la fatica ed il caldo. Per gli scienziati parlare del proprio lavoro è particolarmente soddisfacente. Non si capisce se siano più infantili loro o i bambini, in questa gara a chi ne racconta di più... È proprio vero, è nell'acquedotto che scorre il sangue dell'isola, quel sangue che le dà la vita...

Francesca riprende.

– Proseguiamo un po’, mentre continuiamo il racconto. Avviciniamoci alla cresta che affaccia sulla Spiaggia di Lucia Rosa... È come avete detto voi. L'acquedotto serve a portare l'acqua nelle cisterne.

Sotto i nostri piedi, in ogni punto dell'isola, c'è una serie di piccoli tunnel alti poco più di sessanta centimetri: servivano a “risucchiare” l'acqua che, con le piogge, cadeva sul terreno soprastante, perché non si disperdesse nel sottosuolo. Questa enorme rete di “capillari” confluiva nell'acquedotto, e da lì, l'acqua andava a finire nelle cisterne.
Sono questi piccoli tunnel, chiamati “opere di presa”, che hanno reso l'isola un'Isola-tetto!
Per rimettere tutto in funzione, abbiamo dovuto riparare l'acquedotto, ricostruirlo in molti punti e, opera ancora più impegnativa, pulire e scavare nuovamente tutte le opere di presa. Pensate che, ora, c’è una squadra di operai che, ogni giorno, controlla che questi “capillari” siano puliti ed efficienti e, se serve, ne scavano di nuovi. È un'opera colossale…

– Eppure, come ha detto la mia nobile e geniale consorte, questo non era bastato...

– Flavio smettila, sei un cretino... Racconta degli alberi, dai. È il tuo momento!

– Certo cara, obbedisco cara. Dicevo: è qui che è nata davvero Clorofilìa. Proprio qui, in questo punto. Quel cretino di Michele stava minacciando di lanciarsi in mare, come aveva fatto Lucia Rosa...

– E ci credo, Flavio: eravamo disperati! Lucia Rosa si è buttata perché la famiglia non voleva che si maritasse con un contadino, io volevo buttarmi perché avevo a disposizione SOLO un contadino per risolvere la questione dell'acquedotto...

– Sei veramente un idiota...

– Zio, come faremmo senza le tue scemenze? Però è triste scherzare sull'amore di Lucia Rosa. Dai, è una bella leggenda. I faraglioni più romantici dell'isola sono proprio quelli. Io mi commuovo, ogni volta che ci passiamo vicino…

– Laura, parli sul serio? Anche tu sei umana? No, vabbè, il mondo si sta capovolgendo...

– Aurelio e Michele, per favore, fatevene una ragione e lasciatemi parlare! Senza questo “contadino” e senza quel genio di mia moglie stareste ancora a scavare canali nel tufo... E ringraziate, anzi, ringraziamo tutti, questi stupendi alberi, che ci permettono di camminare al fresco e non cucinandoci sotto il sole, come succedeva prima di Clorofilìa. Eh già. Nel giro di cinque anni, su quest'isola abbiamo piantato quasi OTTOCENTOMILA tra alberi ed arbusti, soprattutto qui sulla cresta e nelle valli. Abbiamo fatto il contrario di ciò che hanno fatto i Romani. Loro l'hanno disboscata, noi l'abbiamo “ri-boscata”. Erano dei geni, grandi ingegneri è vero, ma anche loro hanno fatto enormi danni ambientali.
Clorofilìa era il nome del sito internet che abbiamo aperto per autofinanziarci questa mega-operazione. Come sapete, ogni pianta dell'isola ha un nome, inciso su una targhetta di metallo “inglobata” nella corteccia. È il nome del genitore adottivo di quella pianta. Su Clorofilìa abbiamo messo in vendita la nostra idea. Abbiamo dato alle persone la possibilità di comprare una pianta, che noi avremmo piantato sull'isola; in cambio potevano scegliere come chiamare quella pianta, darle un nome. L'idea era geniale, è piaciuta tantissimo, con 10 euro potevi avere un albero o un arbusto con il tuo nome, conoscere le coordinate GPS della pianta e, volendo, ogni tanto, venire a trovarla, a vedere come stesse, a godersi il paesaggio con lei... 

E hanno cominciato a comprarle! Come regalo di compleanno, per Natale, per i battesimi, per le nascite. Le aziende le regalavano ai propri dipendenti e nel frattempo acquistavano Carbon credit per via della “compensazione” di CO2 che le piante davano rispetto alle loro emissioni.
Di fatto abbiamo “personalizzato” le piante. Dandogli un nome ed un genitore adottivo, ci siamo garantiti che “l'opinione pubblica” fosse dalla nostra parte. Ci sostenevano, si “innamoravano” delle nostre piante, venivano a visitarle, a coccolarle. E pagavano per farlo... Un miracolo! È stato un progetto corale, di tutti noi. Ognuno ha fatto del suo: era il nostro bambino, lo abbiamo accudito e lo abbiamo fatto crescere. In quel momento che abbiamo deciso di trasferirci stabilmente sull'isola. Bisognava seguire le piante: piantarle, concimarle, tracciarle con il GPS, attaccare le etichette con i nomi... Bisognava esserci.

– Sì, Aurelio, è vero. Quasi mi viene da piangere. È stato un momento incredibile... Abbiamo riportato il sangue nelle vene dell'isola. Dopo due anni dall'inizio del progetto Clorofilìa, nell'acquedotto ha ricominciato a scorrere tanta acqua, molta più di prima.

– Qui però c'è stato il colpo di genio, dovete ammetterlo! Sapete come abbiamo fatto a far crescere così in fretta una foresta, qui, sulla cresta, in soli due anni?

– No, zio Michele, no. Non saprei.

– Il genio di cui parlavo prima sono io. Hi hi hi… Ho pensato: per far crescere un bosco ci vogliono decine di anni. E in Italia, ogni giorno, di boschi se ne “smontano” a bizzeffe. Bastava andare in una cava, di quelle che scavano vicino ai boschi, e prendersi “un pezzo” del bosco che stavano smontando

— Così, un giorno, su una nave, è arrivato un bosco LEGO, ci sono arrivati i vari pezzi, come i mattoncini, e noi lo abbiamo "montato" di nuovo, qui, qui su, dove ci troviamo adesso.

– In che senso, zio Gino?

– Nel senso che, anche per fare un bosco c'è bisogno di un ingegnere!

— Spiegati meglio…

– Siamo andati in un bosco che stavano per abbattere, lo abbiamo “diviso” in tanti quadrati, come una scacchiera, poi abbiamo usato delle pale gigantesche per “scontornare” i quadrati. Abbiamo infilato una lama lunghissima sotto questi cubi di terra e li abbiamo “asportati”, con tanto di alberi, radici, arbusti, humus e tutto il resto. Poi, con una gru, abbiamo caricato questi “blocchetti” sui camion e poi su una nave. Arrivati qui, li abbiamo portati in questo ed in altri punti della cresta e abbiamo montato di nuovo il bosco, come si fa con i LEGO! Fico, vero?

– Wow!

– Attenti, sto per dire una cosa molto seria: la scienza ha dimostrato che, nei boschi, le piante costruiscono delle reti sotterranee, tramite le radici, le micorrize — che sono dei funghi che entrano in simbiosi con le radici – ed i microrganismi che vivono nel sottosuolo, il bioma. Alcuni alberi fanno da “nodo” della rete. Sono quelli più antichi, o quelli che si trovano in un punto particolare. In un certo senso, questi alberi diventano i “patriarchi del bosco”.

Mi piace pensare che anche questi alberi che ora sono qui a Ponza avessero stretto un legame, nel bosco da cui provengono. E mi piace anche credere che, una volta portati qui – poiché li abbiamo rimessi “in posto” rispettando il più possibile la posizione che avevano l’uno rispetto all’altro nel luogo di origine, come risultava dalla scacchiera che avevamo disegnato – si siano "riconosciuti", tramite le loro radici, ed abbiamo nuovamente stretto quel legame. Per questo il bosco che abbiamo “ricostruito” sta così bene. È un'idea sentimentale, lo so, ma mi piace!

– Ragazzi, ma voi immaginate la scena? LEGO 1 dice a LEGO 2: “Ué, pure tu sì vnut accà? Comm’ si captàt da chest’ppart?”. 

– Gino... che idiota! Per una volta che faccio il serio...

– Hai ragione Michè, scusa.

– A me piace quest’idea, zio! Forse, se gli alberi stanno bene, trovano i loro vermini preferiti, crescono più velocemente ed accolgono meglio anche i nuovi arrivati, come gli alberi che avete piantato voi!

– Sì, potrebbe essere.
– Ragazzi, riprendiamo il cammino, si sta facendo tardi. Dobbiamo arrivare a Frontone. Dormiremo lì stanotte. Scenderemo usando la stradina che parte dalle spalle del Pronto Soccorso. Non è molta lunga, ma è ripida e non possiamo farla con il buio.

Il gruppo si rimette in cammino. Costeggiano la strada principale, sempre camminando nel bosco e, raggiunto il Pronto Soccorso, cominciano la discesa sul sentiero. Più o meno a metà strada si fermano a visitare il museo etnografico dell’isola. Tre piccole stanze scavate nella roccia, un tempo case per pescatori, che ora ospitano foto, attrezzi, oggetti e ricordi che raccontano la storia dell’isola e delle sue genti. È un posto molto suggestivo. 

È stato il giorno del gruppo. Ognuno ha raccontato la sua parte della storia. Prima di scendere l'ultimo tratto di sentiero, si fermano a guardare il mare da lassù. Come brilla il mare!

Quando si viaggia e, soprattutto, quando si cammina, lentamente, si attraversano e si vivono dei luoghi che, a saperli ascoltare, hanno storie da raccontare. Tante storie. I luoghi parlano e raccontano, tanto quanto gli uomini. Costruire il futuro senza tener conto del passato è stupido, oltre che impossibile, perché, prima o poi, il passato torna a chiedere il conto. Quando te ne accorgi, però, può essere troppo tardi, se non lo hai ascoltato con attenzione. È quello che è successo agli uomini in questi ultimi trent’anni. Hanno trascorso tutto il Novecento a costruire ed espandersi ovunque, anche dove una volta scorrevano fiumi, dove il mare formava lagune, prima che l’acqua venisse “imbrigliata” dai ghiacciai delle montagne e dei poli. Hanno pensato di poter essere più forti del passato. Ma il passato li ha puniti! E così i ghiacci si sono sciolti, i fiumi sono esondati ed il mare è tornato a formare lagune. E gli uomini non hanno potuto fare altro che scappare. A Ponza, la musica è stata diversa. Perché qui c’era un gruppo di sognatori, che il passato non l’hanno ignorato, lo hanno ascoltato.

— Sapete, visitare questo piccolo museo, alla fine di una giornata del genere, mi ha emozionato. È come se la storia che quelle foto e quegli oggetti raccontano fosse, almeno un po’, anche un pezzo della nostra storia.
– Aurè, nu' me fà commuovr.
– Scemo! Aurelio ha ragione. Dopo il progetto Clorofilìa, su quest'isola sono tornati gli uccelli di passo, che erano diminuiti tantissimo perché sull’isola andava “di moda” cacciarli con le reti. Fino all’inizio del Novecento erano una fonte di proteine, visto che mancava altro, ma poi la caccia con le reti è rimasta solo come moda, appunto. Adesso gli uccelli sono tornati e sono abbondanti, perché hanno trovato rifugio nei boschi, dove cacciarli è impossibile. Abbiamo anche reintrodotto un sacco di mammiferi che si erano estinti. E sono tornati anche i delfini! Dai, un po’ siamo anche noi parte della storia di quest'isola. Una bella storia.
– Vabbuó, ma lo sapete che scherzo sempre. Pure io sono orgoglioso di quello che abbiamo fatto. Nel mondo si parla del “modello Ponza” per il recupero degli ecosistemi e per la riduzione delle emissioni di CO2. Vuoi mettere?
– Abbiamo esportato Clorofilìa in tutta Europa, ed ora si sta diffondendo anche nel resto del mondo. E le persone partecipano a questi progetti con sempre più entusiasmo. Possiamo essere orgogliosi di noi stessi, sì!
– Nonostante questo, però, abbiamo cominciato tardi. Vent'anni fa, quando siamo arrivati a Ponza, la spiaggia di Frontone era molto più ampia, nel frattempo il mare si è alzato di quasi un metro e continuerà a salire, nonostante i nostri sforzi. Alcune cose sono irreversibili, ormai.
– È vero, Elena. Eppure Clorofilìa è soprattutto un modello di resilienza. Ed è a questo che dobbiamo puntare, oggi ancora più di ieri.
– Sara, come sempre, tiene ragione: oggi e sempre, Resilienza!
– Zio Gino, come faremmo senza di te?
– Re-si-lien-za! Re-si-lien-za! Re-si-lien-za! Re-si-lien-za! Re-si-lien-za!

– Dai, il ritmo ce l'avete: scendiamo! Dobbiamo ancora montare il campo.
– Il campo è tutto dentro Fùfilo, ci vorrà un attimo. Fu-fi-lo! Fu-fi-lo! Fu-fi-lo!
Così scendono sulla spiaggia di Frontone, si accampano per la notte e cenano sulla spiaggia, a lume di luna.

È stata una lunga e intensa giornata, ma il bagno serale, con quella bellissima e bianca luce della luna, non glielo toglie nessuno. Sono lì, in mare, che spuntano dall’acqua solo con la testa. Tanti pallini galleggianti, visti da lontano. Ma sono una famiglia, una grande famiglia allargata, un super-organismo ben organizzato.

Fino ad ora vi ho bombardati di dialoghi e personaggi, facendoli “emergere” dalla storia uno per volta. È stata una scelta. Mi piace l’idea che, in questa storia, il protagonista non sia nessuno in particolare ma lo sia il gruppo stesso. Però adesso, così, sotto questa magnifica luna, mentre godono di questo mare calmo e amico, è giusto che io mi assuma le mie responsabilità di narratore e faccia un po’ d’ordine.

Clorofilìa è tutta qui: si tratta di tre coppie e cinque single, con relativi figli. Aurelio Belcanto e Arianna Mastrini, genitori di Ettore e Laura, un antropologo ed una ingegnera. Michele Altamura e Alisea Rossi, genitori di Elettra e Licia, un ecologo ed una chimica. Flavio Vignaroli e Sara Li Conti, genitori di Luca, un agronomo ed una matematica. Poi Gino, il rude ingegnere; Francesca Belvecchio, l’archeologa; Elena Marechiaro, la biologa marina, e Chiara Pietrabella, madre di Mattia, la geologa. Infine c’è Ugo. Ma, lui, lo conosceremo più avanti. Per questa sera li lascio così, a godersi il mare di questa piccola grande isola in mezzo al Mediterraneo.


Marco Mastroleo, Latina 13/02/2021

con la revisione editoriale di Gioconda Bartolotta

Se questo capitolo vi è piaciuto, vi aspetto la prossima Domenica per il Capitolo 10 (il programma completo delle uscite è su www.clorofilia.org).

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Approfondimenti: il "discorso" sul nostro rapporto con i Robot è tratto da una intervista rilasciata da Roberto Cingolani a Radio3 Scienza quando dirigeva l'Iit di Genova https://it.m.wikipedia.org/wiki/Roberto_Cingolani

Ringraziamenti:

Per scrivere "dei boschi" in maniera corretta, ho chiesto molti consgli e pareri a Daniele Mirabello, agronomo forestale ed amico. Grazie per la pazieza!

Grazie a Giulia Santoro per il supporto ed i consigli.
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da un'idea di Marco Mastroleo

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