Epilogo

Epilogo

Ho come un peso sullo stomaco, come quelle cose che sai di dover fare ma non ne hai voglia. Sono partito con la lancia in resta, in questa indagine, eppure adesso, che sono ad un attimo dalla vittoria, ora che devo sferrare l’ultimo colpo, ora che, da mastino quale sono, ho Zanna Bianca in pugno, non riesco a dare la stretta finale. Sono un mastino con la mascella afflosciata, sono una lancia spuntata!

Porca vacca. Che mi prende?

Forse è meglio fare un passo indietro. E riprendere da dove ho lasciato.

Dopo l’intervista con EL, Aurelio Belcanto, ho continuato ad indagare. Ho messo insieme altri pezzi.

Aurelio Belcanto ha studiato a Roma. I suoi compagni di Università dichiarano che fosse molto amico di un certo Michele. Indago su Michele e scopro che si tratta di un ecologo, tale Michele Altamura. Pare che i due fossero pappa e ciccia, inseparabili.

Michele Altamura ha scritto una tesi di laurea sui cambiamenti climatici ed il loro effetto sull’ecologia delle isole del Mediterraneo. Aurelio invece, laureato in Antropologia Culturale, ha scritto una tesi sulla percezione dei grandi fenomeni da parte dell’uomo. In particolare, l’ultimo capitolo parlava della nostra incapacità, come specie, di comprendere fenomeni grandi e complessi come il cambiamento climatico in atto.

Si sono laureati nel 2015 e poi, dal 2016, nessuno ha più avuto notizie di loro, in Università. Scomparsi.

Ma non per la Rete. È questo il bello del web, nessuno è invisibile!

Ho cercato articoli scientifici e post sui social. Due mesi di lavoro e di indagini, ma alla fine li ho beccati. Hanno scritto una cosa strampalata sul recupero di un acquedotto romano sull’isola di Ponza.

Tornava, tornava alla grande! La tesi di Michele parlava di Ponza e del suo ecosistema, la tesi di Aurelio parlava di come poter rappresentare su piccola scala, ad esempio in un’isola, le azioni necessarie per adattarsi al cambiamento climatico. Sarebbe stato utilissimo per far capire alla gente che impatto possono avere le nostre azioni. Teorizzava l’uso di un’isola “laboratorio”... Ponza era perfetta! Piccola il giusto e raggiungibile da Roma con un semplice aliscafo.

Le briciole che i due Pollicino hanno lasciato portano a Ponza! Ed è lì che sto andando adesso.

Però…

Appena salito a bordo dell’aliscafo elettrico, il mio umore è cambiato. Ho letto, in grande, sulla prua della nave “progetto Clorofilìa” e… cazzo! Che idiota! Come ho fatto a non pensarci prima? Tutto preso dalla mia rabbia da mastino del giornalismo, non ho fatto l’unico collegamento che andava fatto: i Testimoni di GEA e gli scienziati del “progetto Clorofilìa” sono le stesse persone!

Sono a pezzi!

E come se non bastasse, i due passeggeri a fianco a me non fanno altro che ripetere che proprio non riescono a capire dove abbiano preso i soldi per realizzare questo progetto, gli scienziati di Clorofilìa.

Eh, lo so io, lo so! Dai fondi raccolti dai Testimoni di GEA, ecco da dove. È ovvio!

E ora che stiamo arrivando a Ponza, sono… sono… sono come quella macchia rossa su quella falesia bianca, quella macchia rossa che sembra un cuore, lì, su quella parete in cima alla spiaggia. Un cuore che sanguina e va in pezzi. Così mi sento la testa, mentre arrivo a Ponza con questa nave elettrica.

Da una parte, vorrei denunciare questa sorta di truffa, questo imbroglio, questa religione finta, che Aurelio ed i suoi amici si sono inventati. Dall’altra… che spettacolo il “progetto Clorofilìa”!

La cosa più bella che sia mai stata fatta in Italia negli ultimi anni. Una rivoluzione! Tutto il mondo parla del “modello Ponza” e dei geni che hanno saputo trasformare quest’isola in un laboratorio a cielo aperto. Una miniatura del progetto di resilienza che bisognerebbe applicare in tutto il mondo. Il sogno di ogni ambientalista!

E che idiota che sono… Ci potevo arrivare! Ponza è anche il più grande tempio dedicato al culto di GEA che sia mai stato concepito.

Non posso sputtanare persone che stimo infinitamente.

E il mio giornalismo d’assalto? La mia super inchiesta? Muore così?

Sono veramente a pezzi… Come quel cuore rosso sulla pietra bianca che ti accoglie quando arrivi a Ponza.

Gnam?...

 

Aurelio e Michele, dopo aver lasciato il gruppo in gelateria, mentre continuano a consultare freneticamente lo smartphone, con andamento agitato cominciano a camminare verso la banchina dove approdano gli aliscafi.

– Aurè, vuoi che venga con te?

– No, Michè, ci penso io. È una cosa che voglio sistemare io. È un duello che voglio chiudere io.

– Pacificamente, vero Aurè?

—Ti voglio bene Michè, sei troppo forte… Certo, certo, pacificamente, certo.

– Comunque ‘sta APP di Ugo che elabora i movimenti delle persone che vuoi tenere sotto controllo è una figata! È grazie alla APP che abbiamo saputo che stava venendo sull’isola.

—Sì, beh, qualche dubbio etico ce l’ho su ’sta APP. Però, vabbè, adesso devo pensare ad altro. Vado.

– Ciao Aurè, stai attento. Ti aspettiamo a casa.

L’aliscafo attracca, silenzioso come al solito. La gente comincia a scendere. Aurelio si fa notare, muove le braccia e indica il Bar del Porto. Si incammina e si lascia seguire.

Chissà perché, tutta la rabbia e l’agonismo che ho provato durante tutti questi mesi, l’adrenalina, che già durante il viaggio era calata di molto, una volta sceso sull’isola, appena ho visto Aurelio che si sbracciava lì su quella banchina, sono svaniti!

L’ho seguito nel bar e, quando me lo sono trovato davanti, l’unica cosa che sono riuscito a chiedergli è stato perché si facesse chiamare così…

– Prima di tutto, Aurelio, toglimi una curiosità: perché “EL”?

– Avrai pensato al nome di Dio in ebraico, vero?

– Eh sì.

– Ah ah ah. In realtà la risposta è molto più “terra terra”! Quando sono arrivato, la signora Maria, da cui ho preso in affitto la casa qui a Ponza, mi chiamava sempre, urlando, “AureElio”, calcando in maniera così forte l’accento sulla E che del mio nome si sentiva una cosa tipo “A…EL…”. Sembrava che mi chiamasse “A’EL”, coso... Io ridevo sempre… Così, quando ho dovuto darmi, per così dire, un nome d’arte, ho deciso di chiamarmi “EL”. Faceva fico, misterioso, mistico, antico… divino! E a me faceva ridere. Era perfetto!

– Bella storia, sì. “A’EL”! Toglimi un’altra curiosità: come facevi a sapere che stavo arrivando, che ero proprio su questo aliscafo e che venivo qui proprio per te?

– Sono o non sono uno sciamano? Non è così che mi hai chiamato più volte? Ecco, ho fatto una magia! Ho letto le vibrazioni dell’atmosfera ed ho chiesto agli uccelli di monitorare il cielo per conto mio. Siamo interconnessi, no?

– Ah ah ah. Ok, capito, mi sono fatto sgamare in qualche modo! Vabbè, adesso che ti ho beccato, che si fa?

–Beh, Giorgio Calpurnia, giornalista d’assalto, come vedi, anche noi ti abbiamo beccato. Sapevamo che stavi arrivando perché ti abbiamo monitorato, abbiamo letto il tuo blog, tutte le tue suggestioni ed i tuoi commenti. Sapevamo che non ti saresti accontentato dell’intervista e ti abbiamo aspettato. Ora che sei qui, l’unica cosa che mi viene da dirti è: BENVENUTO IN GEA!

– Ah! Proprio così? Di getto? Tutto finito?

– No, Giorgio. Siamo ancora solo all’inizio. Cercavi una storia? Beh, l’hai trovata. Ora, se hai pazienza, ti racconteremo tutto. Sono tutti a casa, nel borghetto di Santa Maria, che ti aspettano. Abbiamo appena finito il nostro viaggio della memoria, abbiamo tutto fresco in mente. Siamo pronti a raccontare. Tu, hai voglia di scrivere?

– Sono pronto, sono curioso. Eccomi!


P.S.:

Li avevo cercati per demolirli, per svelare l’ennesima “web-truffa” e, invece, mi hanno convertito, se così si può dire... 

Mi hanno conquistato, con la loro storia, con il loro entusiasmo, con la passione e la costanza con cui sono riusciti a portare avanti questo progetto, il “progetto Clorofilìa”.

Non so ancora se questa storia dei Testimoni di GEA gliela perdonerò mai. In fondo, è una piccola frode. Però, ormai, faccio parte anche io del loro gruppo: NOI siamo Clorofilia!

Per questo ho deciso di raccontare questa storia e di raccontare questo viaggio, che la riassume. Perché per una volta, in un mondo tutto incentrato sull’individualismo e sul negazionismo, ha vinto la scienza, ha vinto il gruppo, ha vinto la Comunità, ha vinto l’umanità! Cosa sarebbero gli uomini se non vivessero in comunità?

Buona vita.

Giorgio


Nota dell’Autore

Nel capitolo 13 Francesca corre a “fare un salto” nella libreria “Il Brigantino”. Qualche mese dopo aver terminato la scrittura di questo capitolo, a luglio 2020, ho scoperto che la storica libreria della Famiglia Mazzella ha chiuso. Ed io che pensavo che potesse addirittura arrivare al 2040! Nel mio immaginario non può esistere Ponza senza la libreria “Il Brigantino”, fonte di scoperte e di nuovi punti di vista. La realtà non è così, il che rende questo mio punto di vista stranamente “fantascientifico”, in senso lato. E quindi ho deciso di lasciarla lì, la libreria, ché sopravviva fino al 2040, almeno nei miei sogni!


Marco Mastroleo, Latina 21/03/2021, primo giorno di Primavera

con la revisione editoriale di Gioconda Bartolotta

Tutta la storia è disponibile su www.clorofilia.org

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RINGRAZIAMENTI FINALI

Questo racconto in 14 puntate ha avuto una gestazione lunghissima, è "in cantiere" da quasi tre anni!
Oggi, pubblicando quest'ultima puntata, mi sento come alla fine di una gara: stanco e soddisfatto ma anche pieno di entusiasmo.

In questa lunghissima avventura, tre persone ci sono state SEMPRE... con loro mi sono confrontato e sono cresciuto. E, anche grazie a loro, questo racconto è cresciuto ed ha preso forma.

Per cui
Grazie a GIOCONDA BARTOLOTTA, che ha curato questo testo come se fosse suo, i suoi consigli sono stati preziosi e la sua assistenza e presenza confortante.
Grazie a GIULIA SANTORO che, con le sue riflessioni e le sue critiche mi ha fatto stravolgere del tutto il testo almeno un paio di volte, ma sono contento di averlo fatto.
Grazie a CLAUDIO LUCCHI, molti degli argomenti contenuti in questo racconto li avevo condivisi negli anni con lui e mi ha sempre fatto piacere ricevere i suoi commenti ed i suoi spunti, man mano che venivano pubblicate le puntate. Se mettessi in fila tutti i suoi messaggi WhatsApp sul racconto, sono sicuro che ne verrebbe fuori un bellissimo libro!

GRAZIE A TE,
che hai avuto la pazienza di seguirmi fin qui, in questo lungo viaggio.

So di averti proposto un racconto fuori da tutti gli schemi, che affronta temi impegnativi e intricati e so di non essere uno scrittore professionista per cui, probabilmente, non li ho resi al meglio dal punto di vista narrativo.
spero, però, di essere riuscito a renderti partecipe del mio modo di immaginare il futuro.
spero, anche, di non essere stato troppo ottimista!
La storia ce lo racconterà! 

Giorno 2 - L'acqua-parte1

Giorno 2: L’acqua

PRIMA PARTE

Il giorno dopo, al risveglio, mentre i grandi trafficano con fornelli, caffè e colazioni varie, da una delle tende arriva un grido: “All’arrembaggio!”.  E la tenda comincia a tremare, come se si fosse alzata una tempesta. Si scuote, si gonfia, balla e, ad un certo punto, salta! Una tenda saltante e urlante!

Tutto il campo si ferma, in silenzio, a guardare lo spettacolo. Stupiti, sono tutti stupiti ed immobili.

Poco dopo è Francesca a rompere il silenzio.

— Attenti! Altre galee all’orizzonte — urla. — L’Ammiraglio Doria ha chiamato rinforzi, siamo inferiori di numero, non possiamo farcela, scappiamo! Torniamo alle nostre navi, pirati!

Dalla tenda indemoniata viene fuori un folletto scapigliato, con gli occhi cisposi e imbarazzato:  Ettore

— Scusate, stavo giocando… 

Tutti scoppiano a ridere e, finalmente, anche gli altri bambini iniziano a correre e gridare.

— Sono Dragùt, il terrore del Mediterraneo!

— All’attacco! 

— Ammainate le vele!

Un mucchio di piccoli pirati scalmanati, conciati alla meno peggio con teli e asciugamani, scorrazza tra i fornelli e le tende, “sventolando” bastoni.
Ettore è il figlio di Aurelio e Arianna. Ha tredici anni, è alto e forte abbastanza da sembrare un adulto ma ha sempre la testa per aria, come fosse un bambino di otto anni. Sua sorella maggiore, Laura, quindici anni, fa l’adulta per entrambi. Sono in perenne discussione: litigano, urlano, strillano ma la scena finisce sempre con Ettore che, come i dicono i suoi romanissimi genitori, la “butta in caciara” e così i due cominciano a ridere, rincorrendosi o facendo finta di picchiarsi. Stavolta Laura “l’adulta”, non ha neanche parlato, la cosa le è sembrata troppo divertente e si è subito impiratata come gli altri.  
In questa atmosfera allegra e spensierata il gruppo si rimette in cammino. Costeggiano la miniera dalla quale fino al 1970 si estraeva bentonite (un minerale vulcanico usato nelle fonderie per la produzione di ferro e acciaio) e prendono la strada che scende fino alla baia di Cala dell’Acqua.
Sono ormai le 10,30 così decidono di fare un bel bagno e di fermarsi in spiaggia per il pranzo.
La storia dei pirati continua anche in riva al mare. Ogni barca che vedono è per i bambini una galea da affondare o sulla quale andare all’arrembaggio. Per loro si è aperto un mondo nuovo: finalmente sembra che lascino spazio all’immaginazione. In fondo, era proprio questo lo scopo del viaggio.

Dopo pranzo si rimettono in marcia. Risalgono sulla strada provinciale, direzione Sud-Ovest. Sono le ore più calde del giorno ma il venticello che spira lì, sul dorso dell’isola, rende la passeggiata quasi piacevole. 

Alle 16,30 arrivano a Le Forna. Il vento leggero che li ha accompagnati per un po’ aveva infine preso un’altra direzione, così ora, dopo quel lungo tragitto, sono stanchi ed accaldati.
Decidono di sedersi sulla scalinata che guarda la chiesa, a prendere un po’ d’ombra e a riposarsi prima dell’ultima tappa. Hanno in programma di accamparsi a Cala Feola, vicino alle piscine naturali, e godersi il tramonto da lì.

— Vi abbiamo mai raccontato di quella volta in cui io ed Aurelio siamo venuti qui a Le Forna ed ho quasi litigato con la farmacista?

— Sì Michele, racconta di come ti ho salvato! Se non fossi arrivato io, il progetto Clorofilìa sarebbe morto lì, quel giorno, ancora prima di iniziare. Disgraziato...

— Zio Michele, solo tu puoi aver fatto una cosa del genere! Dai, racconta! 

— Ok ok. Come sapete, sono un ecologo.  E gli ecologi studiano gli ecosistemi, le interazioni tra gli organismi all’interno di un ecosistema. Sono talmente tanto “tarato”, come si dice a Bari, che applico questo punto di vista a tutto quello che faccio. È un vizio di noi uomini di scienza, non possiamo fare a meno di fare gli… scienziati in tutti i contesti! 

— Lo sappiamo, zio. 

— Grazie per la precisazione, Ettore. Tu e Laura siete le mie cavie preferite! Ho sempre voluto capire come è possibile che dall’incrocio tra un antropologo ed un’ingegnera siano potuti nascere due figli normali…

— Quasi normali, dai…

— Aurè, se lo dici tu. I figli so’ i tuoi… Vabbè, stavo dicendo che non posso fare a meno di fare l’ecologo... Un giorno abbiamo deciso, io e Aurelio, di andare a farci un bagno alle piscine. Ma siccome la sera doveva arrivare una mia amica da Bari, col traghetto, prima di scendere alle piscine volevo fare scorta di preservativi… 

—  Michele! Ci sono i bambini… 

— Arià, e che si scandalizzano per queste cose naturali?! Vabbuó, dicevo, venni a far scorta qui alla farmacia di Le Forna. Entrai, chiesi  quello che dovevo chiedere… 

— Cioè i preservativi, vero zio? 

— Arià, come vedi… Vabbuó, dicevo…  Chiesi quello che dovevo chiedere e la farmacista mi guardò dall’alto in basso, “con occhi di bragia” direbbe la nostra archeologa, e mi fece: “Lei, signore, dovrebbe vergognarsi. Questo gesto dimostra che è contro la vita!”.
A me? Ad un ecologo vai a dire che è contro la vita? ’Stà scema... E già mi giravano, ma stavo sopportando. Poi aggiunse: “Pregherò per lei, perché si redima e torni sulla giusta via, pregherò per lei e per la vita”.
Mi giravano sempre di più ma riuscii ancora a trattenermi e le risposi in maniera gentile che io di vita me ne intendevo, la studiavo in tutti i modi possibili e che quello di cui parlava lei con la vita non aveva niente a che fare. Ma quella, tutta serafica (e presuntuosa pure), riattaccò:  “E allora perché non decide di prendersi tutti i figli che Dio le dona?”
Mho’!  Non ci vidi più! Ma lo capite? Uno passa... una vita … a studiare le popolazioni, gli ecosistemi, gli equilibri e si deve sorbire ’sti pipponi? E no!
Cominciai a dirle...

—  E della gentilezza, ormai… nessuna traccia… 

— … che forse lei non se ne rendeva conto ma eravamo nel 2019, sull’orlo della più grande crisi ecologica che la Terra avesse conosciuto negli ultimi sessanta milioni di anni, che questo problema era causato soprattutto dal fatto che noi esseri umani eravamo troppi, che ci eravamo presi già più risorse di quelle che ci spettavano e che il pianeta era in crisi. Che proprio quel giorno cadeva l’Earth Overshoot Day ed eravamo solo al 29 luglio e che questo significava che, da quel giorno in poi fino alla fine dell’anno, avremmo consumato risorse sottraendole alle future generazioni, che stavamo mangiando e prendendo molto più di quello che la Terra poteva darci, che questa cosa significava che tutti quelli che sarebbero nati, i nostri figli, avrebbero dovuto fare i conti con la fame e la sofferenza, se noi non avessimo preso qualche contromisura, e che, se proprio ci teneva tanto alla  vita, di queste cose doveva preoccuparsi, non di un povero squattrinato che si compra un pacco di preservativi. E, soprattutto, che prima di giudicare qualcosa o qualcuno bisogna conoscerli e capirli! 

— Sì, Michele, tutto vero, peccato che mentre lo dicevi ti scappava pure qualche bestemmia in pugliese e qualche frase che capivi solo tu. E, in ogni caso, hai dimenticato un particolare fondamentale!

— Che particolare, Auré? Non mi ricordo!

— Le hai detto, tra mille parolacce, che non doveva farsi “ottenebrare il cervello” dalla sua religione. E mentre lo dicevi sbavavi rabbia… Non è proprio il modo migliore per farsi ascoltare e diffondere le proprie idee, ah ah ah…

— Eh! Ridi, ridi… C’era poco da ridere, con quella… Io le parlavo, e lei mi guardava come si guarda un povero pazzo. Ferma come una statua di cera co’ ’stó sorrisetto del cazzo, di una che ti sta a giudicare... Mi faceva salire il sangue al cervello, porca miseria!

— E me lo ricordo. Bene me lo ricordo! Perché, mentre tu non puoi fare a meno di fare l’ecologo, io non posso fare a meno di fare l’antropologo. E intervenni. Mi misi in mezzo e spiegai alla signora che, purtroppo, lei aveva toccato un tasto dolente, che il povero Michele lì presente era disperato e turbato proprio perché il suo desiderio più grande, il sogno della sua vita, era quello di avere dei figli. Ma che la sua condizione lavorativa — il precariato, l’Università eccetera — non gli permettevano neanche di avere una casa fissa, figuriamoci un figlio, e che lui ne soffriva terribilmente. Era proprio turbato! E questo bastava a spiegare la sua reazione, senza dubbio esagerata, al buon consiglio che la signora era stata così gentile e premurosa da dargli. Ho salutato ed ho accompagnato lo “smadonnante Michele” fuori dalla farmacia. E l’ho anche costretto a chiedere scusa.

— Eh! L’eroe… 

— Sì, testa d’abbacchio! Come ti ho spiegato già quella volta, e come continuo a ripetere a tutti voi da vent’anni a questa parte, ricordiamoci sempre che noi siamo ospiti dell’isola. Siamo di passaggio, come moderni Ulisse nell’isola di Ea. Se vogliamo essere accettati, dobbiamo mimetizzarci e non esagerare. Di certo litigare con la farmacista, dirle che la sua fede le “ottenebra il cervello” e sputarle addosso parolacce e insulti in barese, non era un buon modo per cominciare!

— Hai ragione Aurè, però mo viene il bello di questa storia. Posso raccontarlo io?

— Vai, vai pure, sono curioso di sentire cosa tiri fuori... Tralascia i particolari dell’amica di Bari che aspettavi, che ti ha lasciato all’asciutto e che proprio mentre era con noi sull’isola si è fidanzata con un romano conosciuto qui...

— E meno male! Sennò non avrei mai potuto conoscere l’amore della mia vita, Alisea Rossi, la divinità della chimica che è arrivata sull’isola a settembre, quasi alla fine di quell’estate. Baci, amore mio…

— Ruffiano! Baci anche a te! Diciamo che quei cosi che hai comprato erano pure difettosi, visto che meno di un anno dopo era già nata Elettra…

— Vabbuó, vado avanti nonostante l’evidente ostilità nei miei confronti, branco di maravuottoli che non siete altro! Dicevo che, usciti dalla farmacia, il nostro caro Aurelio mi fece il cazziatone e mi spiegò che, purtroppo, gli esseri umani non sono oggettivi, che c’erano studi recenti che dimostravano che quando vengono loro proposte due spiegazioni, una di natura causa-effetto e una di carattere animistico, gli uomini scelgono più frequentemente la seconda.

— Cioè, siamo antropocentrici ed egocentrici. Tendiamo a personalizzare sempre tutto e questo, spesso, vince sulla nostra razionalità; vediamo il divino ovunque, il nostro cervello tende a vedere “messaggi”, “segni” divini diretti a noi, ovunque, non riusciamo a farne a meno… “Se è caduto un fulmine è perché ho fatto arrabbiare un Dio!”. In questo modo per millenni abbiamo spiegato fenomeni che non si potevano comprendere. Poi abbiamo cominciato a chiederci il perché degli eventi ma quel retaggio persiste, in molti in maniera ancora molto forte, e spesso l’irrazionale prevale ancora sul razionale... Scusa, Michè, ci dai la traduzione di maravuottoli?

— Rane... Ranocchie che non siete altro...

I bambini scoppiano a ridere e, dandosi dei maravuottoli,   cominciano a gracchiare ed urlare correndo per il piazzale della chiesa. Ci vuole un po’, per ristabilire la calma. Soprattutto ci vuole l’intervento di Alisea e Arianna.
Il buon Michele, nonostante sembri allampanato e distratto, in realtà conosce ed usa benissimo i tempi del cabaret! Ogni buon cabarettista, però, ha bisogno di una spalla; così Alisea e Aurelio, che non riescono a rinunciare a queste scenette al limite dell’imbarazzante, gli danno corda e gli “lanciano” la corsa. Li conosco da poco tempo ma scenette di questo tipo ne ho già viste, un bel po’. Il copione è più o meno sempre lo stesso: Michele si lancia in un racconto pieno di aneddoti e personaggi macchietta, Aurelio e Alisea lo prendono in giro e lui comincia a “smadonnare” in pugliese. Un teatrino…
La cosa che mi sorprende e diverte, ogni volta, è pensare che, ancora oggi, nel 2040, quando i dialoghi degenerano o diventano, per così dire, folkloristici, fiorisce il dialetto!
Gli italiani ormai parlano quasi senza accento, tanto che è diventato difficile capire chi viene dal Nord, dal Centro o dal Sud del Paese,  parlano bene in inglese, e qualcuno anche in cinese (come potevamo farne a meno…?), ma in certi contesti non rinunciano al dialetto! Non c’è niente da fare, alcune espressioni, se devono essere “condite”, devono essere in dialetto!
Così, anche questo racconto è andato nello stesso modo. Finito il teatrino, Michele ricomincia a raccontare:

— Insomma, quell’episodio e le parole di Aurelio sull’irrazionalità degli uomini mi avevano insegnato una cosa importantissima: non potevamo andare in giro a raccontare le cose come stavano punto e basta.

— Dopo quanto accaduto, io e Michele ci siamo chiesti se il nostro lavoro di scienziati avrebbe avuto senso e scopo se fosse rimasto confinato solo all’ambito accademico, se avessimo continuato a confrontarci solo con “addetti ai lavori”... Per quanto possa sembrare strano, la nostra è stata una conversazione molto profonda e la risposta che ci siamo dati è stata, ovviamente: no! Bisognava trovare un modo per parlare di scienza alla gente, in un linguaggio che fosse comprensibile a tutti. 

— Non solo, bisognava fare presto, molto presto. Il riscaldamento globale era sempre più accentuato, le cose andavano più velocemente del previsto. Proprio nell’estate del 2019, in Siberia ci fu un enorme incendio che mandò in fumo centinaia di migliaia di ettari di foresta e di torba. Milioni di tonnellate di CO2 in atmosfera, effetti collaterali sugli ecosistemi difficili da immaginare... Era URGENTE cominciare a fare qualcosa. Fare e basta, però, non era sufficiente. In giro per il mondo c’erano migliaia di scienziati impegnati nel FARE, eppure alla gente sembrava non importare!

— Ancora una volta l’analisi antropologica era semplice: il cervello umano è strutturato per comprendere facilmente le cose che riusciamo a vedere, a toccare ed a percepire come imminenti. Siamo programmati per capire bene il “qui ed ora”. Il cambiamento climatico non rientrava in queste categorie. Era una cosa troppo astratta, troppo lontana. Noi uomini facciamo fatica a comprendere fenomeni lenti, grandi, con i quali interagiamo solo in piccola parte. Per comprendere un fenomeno, questo deve riguardarci direttamente... Un incendio in Siberia? E vabbé, basta che non sia vicino a casa mia!
Proprio in quegli anni, gli psicologi cognitivi e gli scienziati che studiavano lo sviluppo del cervello, lo stavano dimostrando con forza: noi uomini tendiamo ad avere un atteggiamento “teleologico”, a cercare un fine per le nostre azioni. Per spiegare un fenomeno preferiamo cercare una causa che in qualche modo ci riguarda: “Devo aver fatto arrabbiare un Dio!” Crediamo nel destino e nella conseguenza animistica delle nostre azioni.  Preferiamo semplificare le cose complesse cercando di trovare una sola causa.
Questo meccanismo, dal punto di vista evolutivo, ci ha aiutato molto, perché ci ha permesso di prendere velocemente decisioni importanti per la sopravvivenza. Come in guerra, ad esempio, quando le ideologie e le religioni contano più della ragione e permettono di non farsi venire “dubbi” su chi sia giusto ammazzare e chi no. Ma nel 2019 non aveva più senso! Il mondo era diventato troppo interconnesso e ramificato. E sempre più intricata era anche la nostra relazione col mondo. Bisognava fare un salto evolutivo! E quello era il momento di farlo. Doveva esserlo, se si volevano evitare conseguenze irreparabili… 

— D’altra parte, proprio in quegli anni, c’era chi faceva leva sul meccanismo che abbiamo appena descritto per trarne dei vantaggi, specie in politica. Per raggiungere l’obiettivo sfruttavano i social network, le fake news, i video e gli slogan. Lo avevano fatto Santini in Italia,  Donald J. Fuff in America, i fautori della Brexit in Gran Bretagna…  Ed erano riusciti ad accrescere il loro consenso e il loro potere. 

La gente faceva fatica ad arrivare a fine mese, non trovava lavoro, pagava le merci ed i servizi sempre di più e cercava una risposta a questi problemi.
E loro la davano, la risposta: tutti i problemi del paese erano legati all’euro o agli immigrati. Ecco trovata “la causa dell’effetto”!
Una spiegazione priva di fondamento e di senso bastava a fare tutti contenti.
Slogan in serie, buttati lì senza capo né coda, erano meglio di studi scientifici ed economici seri ed affidabili. Eppure molti ci credevano ed erano disposti a votarli.  E Santini, Fuff e gli altri sovranisti cavalcavano benissimo questa ondata...

—  Il Medioevo, insomma! Solo che nel Medioevo ’sto ruolo lo svolgeva la Religione!

— E Santini non tralasciava neanche quello! Spesso concludeva i suoi comizi invocando la Madonna o sventolando il rosario…

— Insomma, la conclusione era: se un prete ti dice che sta piovendo fuoco perché Dio è arrabbiato, gli credi. Se uno scienziato ti spiega che si tratta di una eruzione vulcanica, no! Perché per capire l’eruzione devi aver studiato un minimo e devi aver liberato la tua parte razionale…

— Che di solito è offuscata da quella irrazionale: l’emotività, i sentimenti…

— Abbiamo compreso allora che per farti  ascoltare devi  rivolgerti alla parte sentimentale e “viscerale” delle persone. Cosa che nessuno scienziato aveva ancora mai fatto. Su quell’aspetto bisognava far leva, non sulla razionalità.

— Ci voleva una Religione! Una nuova religione in cui i sacerdoti fossero degli scienziati…

—  Ma uno scienziato non può fare leva sulla parte irrazionale, altrimenti smette di essere uno scienziato e diventa uno sciamano!

—  Tuttavia, se spieghi razionalmente che buttare una bottiglia di plastica in mare non va bene per una serie di motivi, nessuno ti ascolta…

— Mentre se a dirtelo è un Dio, cambia tutto! Il Dio può arrabbiarsi e punirti in un modo non umano. E noi uomini abbiamo paura delle cose non umane. In fondo, le Religioni ci hanno sempre dato dei sistemi morali di riferimento …

— Ci voleva una truffa, insomma, una cosa altamente immorale…

—  Il sentiero che stiamo per fare, quello che scende alle piscine naturali dalle spalle della Chiesa… Ogni volta che lo percorro, mi fa venire in mente tutte le parole di quella nostra chiacchierata. Ogni gradino di pietra, ogni pianta, ogni panorama mi ricorda quel pomeriggio…

—  Anche per me è così…  Arrivati alla fine del sentiero, mentre ci mettevamo in costume, guardando il mare da una parte e le piscine naturali dall’altra, continuavamo a chiederci: chi avrebbe potuto avere il coraggio di fare una cosa così subdola, così immorale, eppure così necessaria? Noi?

— Da una parte la nostra moralità, grande quanto le piscine, limpida, affascinante, invitante…. dall’altra il mare, il mondo, la crisi climatica globale, la grande necessità di fare qualcosa…

— Ci siamo guardati negli occhi, abbiamo aperto una birra, abbiamo fatto un brindisi alla farmacista, abbiamo bevuto ed abbiamo preso la decisione più impegnativa e più importante della nostra vita…

— Abbiamo fatto una scelta, e ci siamo… tuffati!

— Da che parte? Da che parte vi siete tuffati? Zio, papà, cosa avete scelto? Le piscine o il mare?

... CONTINUA... Mercoledì 20 Gennaio


Marco Mastroleo, Latina 16/01/2021

con la revisione editoriale di Gioconda Bartolotta

Se questo capitolo vi è piaciuto, vi aspetto la prossima Domenica per il Capitolo 5 (il programma completo delle uscite è su www.clorofilia.org).

Se non volete aspettare le prossime uscite e volete subito sapere come andrà a finire questa storia, scrivete una mail aQuesto indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. per acquistare il libro intero in formato e-book.

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Ringraziamenti:

Grazie a Giulia Santoro per il supporto ed i consigli.

Giorno 2 - L'acqua-parte2

Giorno 2: L’acqua

SECONDA PARTE

Sono seduti sui gradini di fronte alla Chiesa di Le Forna, il sole comincia a calare, Michele ed Aurelio hanno appena finito di raccontare della loro scelta di vita quando Gennaro, un pescatore, gridando corre incontro al gruppo e gli chiede di seguirlo. Ché al largo, verso Palmarola, c’è una cosa da vedere. Un fenomeno stranissimo. Una cosa mai vista prima. Il mare è diventato verde, ed è pieno di cose strane, sembrano mostri alieni! 
Il gruppo scende lungo il sentiero, Michele ed Elena in testa, di corsa davanti a tutti. Quello che i pescatori hanno annunciato è “mestiere” loro!

Elena Marechiaro, biologa marina arrivata sull’isola perché attratta dal Progetto Clorofilìa, è una sognatrice, un idealista, oltre ad essere una scienziata famosa in tutto il mondo per i suoi lavori sulle capacità rigenerative degli ambienti naturali.
A Ponza è andata proprio per questo: partecipare al progetto era l’occasione per mettere in pratica tutto quello che aveva studiato. Un mare da usare come laboratorio. 
Eccoli lì, Elena e Michele, che corrono verso le piscine naturali di Cala Feola. Con gli occhi che brillano come quelle dei bambini, che li seguono a ruota. 
Arrivati alla cala, già da lontano, si accorgono che il mare è verde, di un bel verde, un verde speranza. Ed il loro respiro si fa più intenso. Gennaro, in poche parole, glielo aveva già annunciato, ma vederlo è un’altra storia. 
Prendono la loro barca, accendono il motore elettrico, che non fa nessun rumore; si sente solo il suono dell’acqua che sciaborda lungo le pareti dello scafo. La manovra Michele, Elena è troppo emozionata, si sporge dalla prua per vedere da vicino, per prima, quello spettacolo. Se sarà uno spettacolo...
E finalmente arrivano al largo, nei pressi di quella enorme chiazza verde che riempie il mare tra Ponza e Palmarola.
Michele ferma la barca, la lascia andare alla deriva. Si siedono, raccolgono campioni di quella grande macchia verde. Li esaminano, si guardano in faccia. Il cuore ormai gli batte talmente forte che sentono solo quello. E, inaspettatamente, entrambi, contemporaneamente, cominciano a piangere. Si abbracciano, sorridono, e piangono. Poi ridono, ridono di gusto, ridono col cuore, e di nuovo piangono, singhiozzano addirittura. E rimangono lì, imbambolati, a godersi quello spettacolo incredibile.

Sopraffatti dall’emozione, si sdraiano sul fondo della barca e continuano a piangere. Fino a che il cielo comincia a tingersi di rosso.
È ora di tornare a riva. 

Ormai tutto il gruppo è arrivato a Cala Feola. Hanno cominciato a prepararsi per la notte. Il campo viene allestito sopra le piscine, tra i cespugli e gli alberi. Alcuni, gli adulti, decidono di dormire all’addiaccio, il tempo lo permette.
Appena la barca si avvicina alla Cala, i bambini si ammassano sulla riva. Elena, la zia Elena, la zia che sa tutto di tutti gli animali e che quindi viene tartassata di domande, continuamente, in quel momento non è la Elena di sempre. È diversa dal solito. Ed i bambini queste cose le sanno, le capiscono al volo. Hanno dei chemiorecettori speciali per queste cose! La vedono lì, in piedi sulla prua della barca, con gli occhi gonfi e lo capiscono, che quella sera Elena sarà la bambina più piccola del gruppo. Quando scende dalla barca, le corrono incontro e la abbracciano, la tengono stretta stretta e le accarezzano la schiena, dolcemente.

— Bambini, stasera la storia della buonanotte ve la racconto io. Preparatevi e mettiamoci qui a guardare il tramonto, sogniamo insieme.

Quando ho cominciato a studiare gli animali, quelli che mi affascinavano di più erano i mammiferi, eleganti o soffici, simpatici o terribili che fossero. Il mondo dei mammiferi è incredibile, perché lo sentiamo vicino al nostro. In fondo, un cucciolo di leone somiglia ad un gatto ed un elefante è una grande capra con la proboscide. E tutti loro, un po’, ci ricordano qualcosa di noi stessi. 
Però poi, studiando e studiando, ho scoperto che la terra può anche fare a meno dei bellissimi canguri o degli orsi polari. Può anche fare a meno di noi uomini. La vita può andare avanti anche senza i mammiferi.
Invece, quello di cui la vita sulla terra non può proprio fare a meno, l’indispensabile, è “invisibile agli occhi”, ed ha a che fare con il mare. Per questo sono diventata una biologa marina!
Da piccola passavo tantissimo tempo a fissare il mare. Mi piaceva guardare le onde o semplicemente la linea dell’orizzonte. E mi sono sempre chiesta cosa ci fosse al di là di queste, lì dove il nostro sguardo non arriva. Il mare mi ha sempre dato la possibilità di sognare, di fantasticare. Un po’ come fa Francesca con i suoi pirati. Poi, crescendo, ogni volta che scoprivo qualcosa di diverso, che studiavo un nuovo argomento, tornavo al mare e lo guardavo con altri occhi: un enorme bicchiere pieno d’acqua, una mega strada su cui navigare per raggiungere luoghi lontanissimi, oppure semplicemente un gigantesco acquario nel quale incontrare animali sempre differenti. Alla fine, dopo un sacco di anni, ho maturato una mia visione. Un modo tutto mio di guardare a questo blu.
Avete mai visto quei giocolieri che fanno spettacoli usando le bolle di sapone giganti? Riescono a creare immagini incredibili gonfiando una sfera dentro l’altra e facendole volare insieme! L’ho sempre trovato molto affascinante. È un’idea così “fluida” della realtà!
Ognuna di quelle bolle, però, da sola non avrebbe lo stesso senso e valore che ha quando è insieme alle altre, quando si interseca con le altre! Quello spettacolo non sarebbe altrettanto affascinante se le bolle non si incontrassero, non si toccassero, non si sovrapponessero. E il segreto è proprio in questo: nella relazione fluida tra quelle bolle, in cui ognuna è “al servizio” dell’altra, dandosi senso e valore reciprocamente e dando senso e valore al loro insieme.
Ecco, il mare lo immagino così: una bolla in relazione con altre bolle. E queste bolle hanno un nome, secondo la scienza. Il mare e le altre acque presenti sulla terra si chiamano idro-sfera. Lito-sfera è la bolla delle rocce della terra; atmo-sfera, la bolla di aria, acqua e gas che circondano la terra e la rendono vivibile; bio-sfera, la sfera della vita, che le attraversa tutte e le tiene unite donando colore e vivacità a questo spettacolo fluttuante...
E, senza il mare, senza l’acqua, senza l’idro-sfera, la bio-sfera non potrebbe esistere. Se non ci fosse il mare non ci saremmo neanche noi. Nei pianeti senz’acqua la vita non si sviluppa. Ed è quindi da lì che discendiamo tutti, dal mare. E per questo lo amo. Per questo il mare è la mia vita.
Ho scoperto che, come in una lunga catena, tutti gli organismi viventi sono legati all’acqua. La biosfera, la vita, per “essere” ha bisogno del carbonio. È lo scambio di carbonio tra litosfera, idrosfera ed atmosfera che permette la vita. Uno dei trasportatori più efficaci e più antichi del carbonio è il plancton, quei minuscoli, microscopici organismi che vivono nelle acque. Quindi, tutti gli organismi viventi dipendono dagli organismi più piccoli e sottovalutati! Il ruolo del plancton è fondamentale per la vita sulla Terra, è alla base della catena alimentare. L’esempio più famoso è quello delle sardine. Le sardine mangiano il plancton, tutti i predatori mangiano le sardine: i delfini mangiano le sardine, gli uccelli pescatori mangiano le sardine, gli squali mangiano i pesci predatori, le orche mangiano i pinguini che mangiano le sardine eccetera… Anche gli uomini mangiano le sardine, e i pesci che le hanno mangiate… 

— Elena, tutta ’sta storia quando ti bastava cantare “Alla fie-e-ra dell’Est, per due soldi…”.

— E dai, Michè… Abbi pietà per le nostre orecchie! 

— Vabbè, vi risparmio. Ma non fatemi arrabbiare, ché riattacco!

— Però ha ragione, è così. Senza il plancton la fiera non si fa... Bravo, bell’esempio!

— Zia, ma che significa plancton?

— A cantare sono una capra ma di biologia me ne intendo. Ve lo spiego io!

“Plancton”, in greco antico, significa “vagabondo”, ma gli organismi che lo compongono, pur avendo un corpo denso quasi quanto l’acqua e  “galleggiando” benissimo, si muovono poco. È l’acqua che li trasporta in giro per il mondo. E quella del Plancton è una grande famiglia…  Una grande famiglia che include anche  il fito-plancton, cioè gli organismi unicellulari progenitori delle piante terrestri. “Fito” in greco significa pianta. Ieri Aurelio ci ha raccontato che, senza le piante, non ci può essere vita sulla Terra. Ecco, le piante discendono dal fitoplancton, che è verde come le piante! Quindi, si può dire, che il fitoplancton è il padre della vita sulla terra! Vai Elena, ti ripasso il testimone…

 — C’è anche un altro aspetto, il più importante. Il fitoplancton si chiama così perché, come le piante, fa la  fotosintesi. Anzi, se vogliamo essere precisi, è proprio il fitoplancton che ha “inventato” la fotosintesi,  grazie alla quale l’anidride carbonica ed i carbonati presenti nelle acque — il carbonio “inorganico” — vengono trasformati in carbonio “organico”, cioè in zuccheri. Gli zuccheri alimentano il fitoplancton, che aumenta la propria "biomassa" e, da qui, questo "cibo" viene trasferito agli animali marini: il fitoplancton viene mangiato dal plancton animale, che viene mangiato dalle sardine e così via, come abbiamo detto prima. Insomma, alla base della catena della vita c’è il fitoplancton!

Questo, al contrario delle piante, che immagazzinano l’anidride carbonica nel legno e nelle foglie, la rimette subito in circolo, creando la vita. È la cosiddetta “pompa biologica del carbonio”. E non è ancora finita! Facendo fotosintesi, il fitoplancton arricchisce l’acqua di ossigeno. Da qui l’ossigeno passa nell’atmosfera. Dunque, l’ossigeno che respiriamo proviene sia dalle piante terrestri che dal fitoplancton.

— “Alla fie-e-ra dell’Est…”.

— Michele, avevi promesso! Continua Elena, perdonalo! …

— Una volta morti, i microrganismi che compongono il plancton precipitano, portando in fondo al mare grandi quantità di carbonio, che non va nell’atmosfera ma si immagazzina in fondo al mare e diventa sedimento, fissandosi lì. 

— Capite perché oggi mi sono emozionata così tanto? Se manca il fitoplancton, questa catena che permette la vita si ferma. Ma oggi, in mare, ne ho visto tanto! Qui, davanti ai nostri occhi, ho visto la speranza! Ed è verde, verde come ogni speranza che si rispetti. E si chiama fitoplancton!

— Ragazzi, vedete… Come vi raccontavo prima — avete presente? Quando mi sono “attaccato” con la farmacista… — negli ultimi anni stavamo vivendo un processo terribile per il Pianeta, quello che abbiamo chiamato “riscaldamento globale”.

Nell’atmosfera si era accumulata molta anidride carbonica, che ha creato il cosiddetto “effetto serra”. La temperatura dell’atmosfera si è riscaldata e, di conseguenza, si sono riscaldati anche i mari…

— E siccome è proprio lo scambio di calore con l’atmosfera che fa partire le correnti marine, alcune correnti “verticali”, che portano i minerali dal fondo del mare verso la superficie, si erano rallentate. Quindi il fitoplancton aveva sempre meno da mangiare e stava diminuendo, velocissimamente. Si stima che dal 1940 al 2020 fosse diminuito quasi del quaranta percento!

— ’Na catastrofe… 

— Mentre tutto il mondo parlava di diminuire le emissioni di anidride carbonica per rallentare il riscaldamento globale ed i botanici urlavano che bisognava salvare le foreste, noi biologi marini ci sgolavamo nel dire che bisognava salvare il fitoplancton, che quella doveva essere una priorità assoluta… 

Qui, con il Progetto Clorofilìa, con Spazzolo e con gli altri robot creati da Arianna e da Gino, abbiamo provato, nel nostro piccolo, come se questo pezzo di mare fosse il nostro laboratorio, a riattivare il ciclo vitale del fitoplancton. Abbiamo studiato i fondali, studiato le rocce, le correnti; abbiamo scavato nei porti, pulito, filtrato le acque del mare, abbiamo limitato il traffico di navi e barche, abbiamo fatto tutto ciò che era possibile, per più di dieci anni… Ed oggi, finalmente, eccolo lì il nostro miracolo… Il miracolo di questo mare che ha ripreso a respirare… Quella macchia verde di fitoplancton. Una bellissima fioritura, che ci fa sperare, come i fiori sugli alberi a Primavera…

— Zia, quindi, cosa potrebbe succedere ora?

— Nei prossimi mesi potremmo vedere aumentare i pesci azzurri come le alici e, forse, torneremo a vedere i delfini, numerosi come erano un tempo intorno a quest’isola e, ora sogno ad occhi aperti, le balene… Che bello sarebbe vedere le balene qui…

— Wow, le balene!

— E le foche, zia?

— Per le foche ci vorrà qualche anno in più. Sono più… “delicate”, ecco.

— Stanotte voglio sognare le balene, zia, o almeno i delfini… 

— Certo, Luca. Sarebbe bellissimo.

— Sì, meglio dei pirati, almeno se sogni le balene non distruggi la tenda come ha fatto Ettore stamattina!

— Ah ah, giusto! Buon sogno di balene a tutti, allora. Buona notte bambini.


Marco Mastroleo, Latina 20/01/2021

con la revisione editoriale di Gioconda Bartolotta

Se questo capitolo vi è piaciuto, vi aspetto la prossima Domenica per il Capitolo 6 (il programma completo delle uscite è su www.clorofilia.org).

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Ringraziamenti:

Grazie a Giulia Santoro per il supporto ed i consigli.

Giorno 3: Il fuoco

Giorno 3: il fuoco

Il giorno dopo, a gran richiesta dei bambini, Elena e Michele organizzano un’uscita in mare. Sono tutti curiosi di vedere questa bellissima fioritura di fitoplancton. Il viaggio doveva durare cinque giorni, ma questo evento ha cambiato tutto. È una festa, una celebrazione del successo di anni di lavoro. Non si può lasciar andare così.

Eccoli, allegri e spensierati, pronti a questa bella giornata in mare. Con questa stupenda visione romantica del mare.

Eppure, negli ultimi anni, proprio il mare è stato l’incubo più ricorrente nella mente degli uomini, il nemico numero uno!

Sembra facile e banale dire, come raccontavo prima, che il mare si è alzato di un metro negli ultimi venti anni, ma avete idea di cosa voglia dire?

Ci siamo tristemente abituati ad ascoltare notizie di migrazioni di massa di popoli che, dalle coste sulle quali vivevano, cercavano posto nell’entroterra, invadendo città e territori di altri. Abbiamo raccontato gli uragani, le alluvioni e le pianure invase dall’acqua, le coltivazioni e le case distrutte. L’economia che collassava sotto il peso di cambiamenti così grandi! Trasformazioni così epocali non avvengono senza causare disastri. 

Gli sceneggiatori di Hollywood vedevano i loro film diventare realtà. Chiunque, come era di moda nell’era dei social network, aveva la sua idea da esprimere, e lo faceva a suo modo: chi urlava al complotto, chi ne sapeva sempre più degli altri, chi cercava solo e soltanto qualcuno a cui addossare le colpe, senza neanche provare a cercare una soluzione… 

Certo, i climatologi avevano previsto tutto questo, ma si aspettavano che accadesse nel giro di cinquant’anni, non di venti!

Invece noi uomini avevamo accelerato il processo naturale di riscaldamento del clima in maniera talmente incisiva da non poterlo invertire. Non con i nostri mezzi!

Il Mediterraneo poi, essendo sostanzialmente un immenso lago collegato agli oceani con un solo sbocco, subiva questi fenomeni con un peso cento volte maggiore. Le città lungo la costa del mare nostrum sono state le prime ad essere invase dall’acqua, le prime a subire tempeste mai viste prima, le prime a dover organizzare delle vere e proprie migrazioni di massa.

Ve l’ho detto: il mare era il nostro nemico numero uno!

E pensare che i segnali c’erano tutti già dagli anni Duemila! I ghiacciai sulle Alpi si stavano sciogliendo molto più in fretta di quelli del resto del mondo, i livelli delle acque sotterranee stavano cambiando un po’ dappertutto e tempeste ed alluvioni erano all’ordine del giorno. Ogni anno, tra settembre e dicembre, si aspettava il peggio. Un clima monsonico a tutti gli effetti.

Per questo, entrare in mare, nel 2040, in modo così spensierato e leggero, era il segno preciso che qualcosa era cambiato davvero. Che si poteva tornare al mare amandolo, e non solo avendone paura.

Le piscine naturali di Ponza si chiamano così perché, un tempo, una fila di scogli divideva una pozza d’acqua, “incisa” nella roccia, dal resto del mare. Oggi, quegli scogli si vedono solo con la bassa marea, ci si cammina sopra, passeggiando con i piedi in ammollo. Il paesaggio è cambiato!

Ma torniamo al nostro gruppetto, mette gioia solo a guardarlo: bambini che strillano, adulti che si prendono in giro e scienziati emozionati come al primo giorno di scuola: si va a Palmarola, l’isola del fuoco! 

Escono con le barche elettriche che usano per il lavoro intorno all’isola. Devono prepararne due. Non è possibile ospitare tutto il gruppo in una sola imbarcazione: sono piccole e la potenza del loro motore non consente di superare un certo peso a bordo. Sono stati Arianna e Gino ad inventare queste "lance" snelle, agili e silenziose, adatte al lavoro di studio e ricerca dei biologi, e sono sempre loro a prendersene cura. Ma sono barche un po’ lente rispetto allo standard. Tocca accontentarsi. 

– Zio Gino, perché Fùfilo non può venire?

– Perché è grosso assai… Pesa troppo per queste barchette, e non c’è spazio sufficiente.

– Mi dispiace lasciarlo a terra, tutto solo…

– Non preoccuparti, Licia. Ne approfitterà per ricaricarsi un po’. Lo lasciamo al sole, con i pannelli tutti aperti, e così, al ritorno, lo troviamo bello carico.

– Va bene, però gli lascio il mio pupazzo, così non si sente solo.

Licia è la seconda figlia di Michele e Alisea. Una strana combinazione di freddo calcolo matematico, misto ad affetto e premura. Quando ti guarda con quegli occhi verde oliva non sai mai quale parte di lei stia affiorando, fino a che non apre la bocca. Ed ha una gran passione per i robot. Per questo viaggia praticamente appiccicata a Fùfilo, e a Gino e Arianna, ovviamente!

Il gruppo si distribuisce sulle due barche in modo omogeneo: adulti e bambini su una barca e sull’altra, per equilibrare i pesi sulle due lance. 

Elena guida il gruppo della sua barchetta. Si posiziona a prua e, più eccitata dei bambini, racconta a tutti quello che potrebbe accadere. O, quantomeno, quello che lei si aspetta che accada.

– Come vi ho detto ieri, il fitoplancton potrebbe attirare banchi di pesci, anche di specie nuove. Per cui, silenzio assoluto e… occhi aperti!

Ma dopo più di quindici minuti di silenzio, osservazione e rollio della barca sul mare, i bambini cominciano ad essere impazienti…

– Quanto saranno grandi questi pesci?

– Non lo so, è una sorpresa anche per me…

– Arriveranno anche gli squali?

– Non so neanche questo, è probabile…

– E i pesci tropicali, che sono arrivati nel nostro mare negli ultimi anni per via del riscaldamento globale?

– Ettore, sì, penso di sì. È una domanda difficile, bisogna studiare...

– Zia, i pesci che arriveranno saranno grandi quanto quei pescioni che saltano sull’acqua, laggiù?

– …

– Zia? Zia, mi hai sentita?

– Sì, Laura, scusami... Penso che quelli non siano semplici pesci. Do una occhiata con il binocolo… Mi manca il fiato… Potrebbero essere delfini… e sarebbe la prima volta che li vedo da anni. Da più di dieci anni… 

– Non è possibile, i delfini non esistono!

– Luca, ancora con questa storia... Eccoli, li vedo anche io. Esistono eccome! E ci portano al pesce, come avevo previsto io. Cavolo, dovevo portarmi il drone…

– Ettore, silenzio. Goditi lo spettacolo…

Ettore, il figlio di Aurelio e Arianna, è il capogruppo dei bambini, un ruolo che si è guadagnato per via dell’età e della sua corporatura massiccia. Zittito lui, tutti quanti rimangono in religioso silenzio. Luca, invece, è il più piccolo fra loro. È il figlio di Flavio e Sara, l’agronomo e la matematica del gruppo (avranno anche loro una parte importante in questa storia…)

L’aria si satura di tanta umidità, e dalle goccioline piano piano emergono delle virgole nere, all’orizzonte. Il mare comincia ad incresparsi ed una serie di zampilli, flutti e schizzi piroetta nell’aria, come se i vulcani che hanno fatto nascere le isole si fossero risvegliati, come se tutto si fosse rimesso in moto, come se la terra ricominciasse a respirare. I flutti e gli schizzi, simili a lapilli di lava, prendono vita con la stessa potenza di un’eruzione, portando a galla un’energia del tutto simile. Un’energia di muscoli e respiri: i delfini!

Un branco di stenelle, piccoli delfini tipici del Mediterraneo, dorso grigio e pancia bianca e gialla, compare a Sud. Lo spettacolo è incredibile: venti o trenta animali che, sincronizzati, sbucano fuori dall’acqua mostrando il loro dorso, che riflette i raggi del sole. Le stenelle in testa al gruppo accennano anche qualche salto acrobatico, forse per segnalare agli altri la direzione da seguire.

Tutti rimangono a bocca aperta.
Quello che li impressiona di più è il suono. Certo, hanno visto documentari o video nei quali i delfini nuotano, si incrociano, sfrecciano sotto il pelo dell’acqua, ma averli lì, davanti ai propri occhi, e “sentirli” allo stesso tempo è una sensazione che lascia col fiato sospeso.

Quando emergono, i cetacei sbuffano fuori l’acqua contenuta nello sfiatatoio ed inspirano, prima di immergersi di nuovo. Questo suono, questo soffio rotondo e intenso, è l’elemento che rende la scena profonda, che la rende concreta. E che permette di capire che sta avvenendo davvero, che due mondi si stanno incrociando. E che siamo fatti tutti della stessa materia, di aria, acqua e fuoco...

– Io… Io ieri vi dicevo che ci sarebbero voluti mesi, ed invece già oggi abbiamo visto tornare i delfini. È proprio vero che la natura ha tempi e modi che ancora non riusciamo a capire! Ogni volta che pensiamo di aver compreso dei meccanismi, ecco che arriva una sorpresa, una nuova sfida…

Spengono i motori e rimangono tutti in silenzio ed immobili, a godersi la meraviglia. E sui visi di molti di loro compare una lacrima di gioia. Elena, invece, filma tutto. Seria e professionale. Si è già sfogata la sera prima…

I bambini, presi dall’euforia, immergono le mani nell’acqua e cominciano a schizzarsi. Forse attratti da quei gesti, alcuni delfini si avvicinano agli scafi. Giocano e sfrecciano tra le barche e, dopo venti minuti, si allontanano seguendo le scie della fioritura del fitoplancton. Macchie lucenti su un orizzonte verde e blu.

Divertimento ed emozione pura, questo si legge sul volto dei bambini. Uno spettacolo del genere non è così frequente nel 2040. 

Riaccendono i motori e ripartono. Nessuno parla, sono ancora tutti troppo emozionati.

Stanno arrivando presso le coste di Palmarola quando Laura, la sorella maggiore di Ettore, comincia a urlare:

– Lì! Lì! Guardate lì, cos’è? Cos’è? È grande…

Elena punta la telecamera nella direzione indicata da Laura e, dopo aver zoomato e guardato, si siede. Questo è troppo anche per lei.

Un grande sbuffo d’acqua, altissimo, un’eruzione pliniana di acqua, accompagnata da una ricaduta di vapore…

– È una balenottera. Non ne avevo mai vista una in questi mari. È incredibile! Che… che bello!

Le balenottere, perché sono due, in realtà, venendo in superficie sollevano grandi spruzzi in aria e immergendosi lasciano vedere la loro lunga coda, che spunta come la vela di una nave. Dolci ed eleganti nel loro delicato nuotare.

Di nuovo si spengono i motori, e si osserva. Le balene vengono su a bocca aperta, raccogliendo e filtrando tutto quello che può passare dalle loro enormi bocche. 

È un momento quasi mistico, un’apparizione. Il rumore ritmato degli sfiati che saturano l’aria di vapore, il suono delle code che si infrangono sulle onde… La consapevolezza che gli animali che stanno osservando sono dei veri e propri giganti, incredibilmente più grandi ed eleganti di qualunque cosa abbiano visto prima, rende questo momento quasi estatico.

Elena racconta, prendendo spesso fiato:

– Al largo di Palmarola c’è la fossa più profonda del Tirreno. Una grande valle sottomarina che arriva a toccare i 5000 m di profondità. È la porzione di mare con la più grande massa di acqua e di ossigeno di questa zona. Dovrebbe essere normale vedere animali così grandi qui, eppure non ne avevo mai visti. Troppe navi, troppo movimento, troppo poco pesce… con Clorofilìa, con le politiche di rispetto del mare che abbiamo messo in piedi, abbiamo permesso a questi splendidi esseri di tornare in questi mari. Viva la Vita… 

Osservano in religioso silenzio questi enormi animali immergersi e riemergere mostrando ora le pinne, ora il dorso, ora la pancia. Una danza di un’eleganza difficile da immaginare per degli animali terrestri come noi.

Quando le balenottere sono ormai lontane, le barche si rimettono in marcia alla volta di Palmarola.

Sulla seconda lancia, Gino, “il dissacratore”, si gira verso Flavio e rompe il silenzio, commentando:

– Uè, Flavio, occhio che mo’ attacca Francesca! Ogni volta che jamm a Palmarola tira o’ pippone de l’ossidiana. Navigavano ’ncopp, navigavano arrèt, l’ossidiana di Palmarola... E che du’ palle, come dite a Roma!

– Ah ah, Gino, sei ’na bestia! Però è vero, hai ragione. Anzi, sai che ti dico, secondo me tra un po’ parte pure il pippone della geologa! Ogni volta che attraversiamo questo tratto, Chiara si gira verso Ponza e dice: “Si vede proprio che è vulcanica… Guarda che cono, che cratere… Sono proprio isole nate dal fuoco...”.

– E ’nfatti. Che du’ palle… Per quanto la rispetti, Flavio, ogni tanto scassa pure lei!

– Eh eh! Comunque, pensa, senza di loro, la Soprintendenza non ci avrebbe mai fatto lavorare qui. E poi, diciamoci la verità, per scalfire il tuo duro e puro cuore da ingegnere ce ne vuole... Non t’emozioni co’ niente!

– E come no? Certo che m’emoziono… Le femmine, Flavio... Quelle mi emozionano sempre! Si può dire che sia l’unico motivo per cui abbia accettato questo lavoro sull’isola: femmine a volontà, tra maggio e settembre, turiste in abiti succinti e “aperte agli scambi culturali”...

– Ah ah ah! E gli altri mesi?

– L’attesa, Flavio. L’attesa! Comm’è doce l’attesa… Il fatto di sapere cosa mi allieterà da maggio a settembre... L’attesa è la cosa migliore! Sogno ad occhi aperti…

Flavio Vignaroli è l’agronomo del gruppo, ed è l’unico, da buon romanaccio, che riesce a tenere testa a Gino e alle sue battute. Mentre il dialogo truce va avanti, come da copione, Chiara e Francesca si scatenano.

Chiara è la geologa di Clorofilìa, madre del piccolo Mattia. È arrivata sull’isola da sola ed incinta. Sempre ben vestita, linguaggio forbito, portamento altero, “fighetta” direbbe Gino (ed in effetti lo dice…), sembra uscita da un film dei primi del Novecento, ma quando parla di “pietre”, e quando si tratta di scavare, picconare e sporcarsi le mani, si trasfigura… s’accende… diventa una ruspa!

– Il punto di vista che si ha da Palmarola è sempre unico. Da qui si apprezza veramente bene la geologia delle isole, sia di Ponza che di Palmarola stessa. Sono bellissime sculture di fuoco, guardarle da qui mi emoziona sempre…

– Non dimenticarti dell’ossidiana, l’oro nero della Preistoria…

– A Flavio, che t’ho detto… ? So’ partite, ’e ddoje... 

– Gino, sei ’na bestia davvero… Lasciale fare... E poi, stanno con i bambini, oggi hanno il pubblico! 

– Certo, Francesca… In effetti, proprio partendo dalla storia dell’ossidiana si potrebbe riassumere tutta la geologia di queste isole… La loro storia comincia 2,5 milioni di anni fa, quando, dal fondo del Tirreno, in questo punto, spuntò una catena di vulcani. Da quei vulcani nacquero Ponza, Palmarola e Zannone. Ventotene e Santo Stefano, invece, sono più recenti e risalgono ad eruzioni di circa un milione di anni fa. La caratteristica di questi vulcani è data dal fatto che si sono formati tramite eruzioni sottomarine di magma acido, silice pura. A contatto con l’acqua, il magma si raffredda bruscamente e genera una roccia chiamata ialoclastite. Bianca e cristallina, un vetro vulcanico. È bellissima! È la bianchezza della ialoclastite che rende Ponza così bella, il suo mare così trasparente. In alcuni punti, i clasti conservano la loro grandezza originale, non si sono frammentati e sono visibili in noduli neri: la famosa e preziosa ossidiana!

 

Me lo chiedevo sempre, prima di arrivare qui, sull’isola: com’è osservare la natura con gli occhi di un tecnico? Noi vediamo spiagge bianche, acqua pulita e limpida in cui nuotare, e loro, loro vedono la… ialocosa. Mah! Già la sola parola mi fa passare la voglia di tuffarmi.

E invece, col tempo, ho capito che c’è una certa poesia anche in questo. Sapere come sono nate le cose, da dove “arrivano”, quanto tempo hanno, qual è la loro storia, te le fa apprezzare ancora di più. Se ti tuffi nel mare di Ponza non puoi fare a meno di goderti la sua pulizia e lo spettacolo che ti offre ma, se sai qual è la sua storia… allora ne apprezzi il valore, lo ami ancora di più, perché capisci che stai nuotando in qualcosa di unico. E puoi anche chiamare per nome ciò che lo rende unico: Ialo… ialo… Ialo… tu: non ti temo… Prima o poi devo imparare a nominarla, ’sta roccia! 

— Oltre alla ialoclastite ed all’ossidiana, qui si può trovare anche la perlite. Il magma, fuoriuscendo e raffreddandosi, si “contrae”, si rimpicciolisce ma, se nelle sue fratture entra l’acqua, il magma la ingloba e tende ad espandersi di nuovo formando delle bolle, delle sferette, la perlite appunto, che si chiama così perché ricorda le perle. 

– Ho capito, zia. Ecco, allora, cosa sono quelle montagnette di Palmarola! Se l’isola una volta era un vulcano, quelle sono i suoi coni, vero?

– Sì e no. Insomma, i magmi acidi di questi vulcani sono molto viscosi, molto densi; non scorrono molto bene, si accumulano e formano delle cupole. Le isole sono quello che resta di una serie di cupole vulcaniche sottomarine che i geologi chiamano domi. Se poi il domo trattiene la lava al suo interno, si formano i cosiddetti dicchi, pezzi di lava che fuoriescono, allargandosi a forma di cono verso l’alto o di lato. Si vedono bene sulle falesie, le pareti a picco sul mare. Si distinguono chiaramente perché sono rossi o marroni e spiccano bene sul bianco della ialoclastite, come ’o core della storia dei giganti. Quando un dicco, durante l’eruzione, si fa strada nella ialoclastite e poi fuoriesce si raffredda molto velocemente. È proprio qui che si forma la famosa ossidiana. Tutto chiaro? 

– Sì, dicchi… 

– Ok, osservando la disposizione dei dicchi su una carta geografica si nota che formano dei cerchi, l’interno dei cerchi indica il centro dei domi, le cupole che formano le isole. Ce ne sono tre a Ponza ed uno a Palmarola. Piano d’Incenzo, dove eravamo il primo giorno, è molto particolare, perché è un criptodomo. Ovvero, è un domo che non è fuoriuscito. Ha spinto i depositi di lava dall’interno, questi si sono sollevati ed hanno formato una collina.

– Come un brufolo, zia? 

– Sì. Insomma, non è una bella immagine ma rende bene l’idea. Anche Zannone è formata da un criptodomo: al centro dell’isola c’è un enorme e bellissimo dicco. 

– Chiara, bambini, guardate! Ecco il dicco più grande e spettacolare delle due isole. È pieno di bellissima e nerissima ossidiana! 

La barca è ormai arrivata nei pressi della spiaggia di Palmarola. Ogni volta che arrivano lì, Francesca si fa prendere dall’entusiasmo.

– Questo grande dicco era conosciuto già dalla Preistoria. Pensate che nel Neolitico, circa 5000 anni fa, le persone attraversavano il mare, dal Circeo a qui, in canoa, per venire a prendere l’ossidiana. La caricavano sulle barche, venivano a Ponza, la “sbozzavano”, la pulivano e la lavoravano, per poi riattraversare il mare e tornare al Circeo, dove c’erano dei piccoli villaggi che realizzavano frecce, lame ed altri strumenti, da vendere in tutta Italia. Tutto il “percorso” veniva chiamato la “via dell’ossidiana”. Partiva da qui ed arrivava fino in Veneto e poi in Slovenia. Che meraviglia! Ogni volta che ci penso mi vengono i brividi. 

– A me, invece, fa impressione pensare che solo venti anni fa qui c’era una spiaggia enorme, il mare era più basso di quasi un metro. Ora si attracca vicino alla falesia ma prima si camminava sulla spiaggia di ciottoli!

– Le “case-grotta” che vedete qui sulla falesia sono state scavate dai primi abitanti dell’isola, tra il 1700 ed il 1800. Vivevano qui per qualche mese all’anno, coltivando legumi e vigne: “agricoltura eroica” la chiamano!

– Fico! Possiamo farci il bagno, ora? 

– Ok, sì, la lezione è finita: bagno! E non dimenticate la maschera, ché andiamo a vedere l’ossidiana… È bellissima! 

Immergersi al largo di Palmarola è sempre, anche oggi, nel 2040, un’esperienza unica, che va vissuta almeno una volta nella vita. Il fondale bianco, le rocce brillanti e le acque cristalline ti lasciano addosso la sensazione del volo. Quando ti immergi in questo mare vedi sempre il fondo. Quando galleggi sembri sospeso a mezz’aria. E ti senti leggero.

Da ragazzo sognavo spesso di volare, di poter planare tra i tetti delle case o sui parchi di Roma. Niente, nella vita, mi ha fatto provare questa sensazione come immergermi al largo di quest’isola. Ed oggi so che è tutto merito della ialoclastite e di tutte le sue bellissime sfumature. Ehi, finalmente ho imparato a dirlo!

Fare snorkeling nel 2040 è fico come essere nello spazio. Si indossa una maschera ipertecnologica con una videocamera sulla fronte, una serie di sensori che segnano profondità e distanza dalla costa, ed un quadrante incorporato che ti permette di leggere queste informazioni sulla maschera stessa. Ti senti un po’ astronauta, un po' androide.
Ma, per fortuna, nessuna tecnologia potrà mai sostituire la sensazione che si prova entrando in acqua. Quel brivido che ti sale lungo la schiena, quella sensazione di liberazione che ti mette in contatto con quello che ti sta intorno.

I bambini nuotano come pesci, d’altra parte sono cresciuti su un’isola, il mare è la loro dimensione. Elena li guida, come sempre quando si immergono, a cercare pesci, spugne ed altri animali strani. Aurelio e Michele, invece, lasciano la maschera e tutto il resto in barca.

– Oggi ho voglia di nuotare così, come si faceva un tempo, senza troppa tecnologia addosso. Ho voglia di sentirmi in puro contatto con il mare, festeggiare così l’evento incredibile che abbiamo vissuto. Le balene, Aurè… Ma chi ci aveva mai sperato?

– Michè, mi preoccupi. Non starai sviluppando una sorta di spiritismo naturista? A parte gli scherzi, sì, sono d’accordo con te. Il bagno di oggi ha un sapore diverso...

Dopo un pranzo frugale a bordo delle barchette, il gruppo rientra a Ponza ed attracca vicino alle piscine naturali, è ormai pomeriggio inoltrato.

– Fùfilo ci ha aspettati qui, buono buono. Posso riprendermi il pupazzo?

– Sì, Licia, certo. Grazie, piccola. Fùfilo è stato molto contento di avere il tuo pupazzo.

Gino, cinico e truce, in realtà, ha un cuore di panna!
Si preparano per la seconda notte a Cala Feola. La giornata è stata intensa, ricca di emozioni.
Sulla bellissima falesia bianca di ialoclastite, in una casa-grotta a picco sul mare, da sempre c’è un piccolo ristorante. Stasera il gruppo mangerà qui. Menù: frittura di paranza. Per l’occasione, Giovanni, il cuoco, abbonda con le alici. Per ricordare quanto sono importanti per la salute del mare. Anche a lui Elena ha fatto ’na capa tanta con la storia del fitoplancton!

– Grazie a tutti per la bella giornata. Mi tremano ancora le gambe per l’emozione. Mai come oggi, quando ho visto le balene, mi sono sentita parte del mare, una sua creatura. Propongo un brindisi al mare ed alla vita!

Elena, le sue emozioni, e il mare, che un tempo era il nostro peggior nemico…


Marco Mastroleo, Latina 31/01/2021

con la revisione editoriale di Gioconda Bartolotta

Se questo capitolo vi è piaciuto, vi aspetto la prossima Domenica per il Capitolo 8 (il programma completo delle uscite è su www.clorofilia.org).

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Ringraziamenti:

Grazie a Giulia Santoro per il supporto ed i consigli.

Per saperne di più sulla Geologia di Ponza:

Giorno 5 - Tecnologia

Giorno 5: Tecnologia

La giornata precedente è stata quasi malinconica. Parlare di come è nata la loro comunità ed il loro sogno ha coinvolto tutti, nel corpo e nello spirito. Aurelio e Michele si ritrovano fuori dalle tende già alle prime luci del mattino, come se si fossero messi d’accordo. Quante volte si sono ritrovati a guardare nascere il giorno per poi cominciare il lavoro! Preparano il caffè per tutti gli adulti e li svegliano, per assistere insieme al sorgere del sole.

– Che bella è l’alba a Ponza! Qui a Frontone, poi, è veramente magnifica.

– La falesia brilla alla luce del mattino. È splendida. Sembra veramente scolpita da un gigante folle!

– Se svegliamo presto i bambini possiamo fare un po’ di strada al fresco! Su questo versante il sole batte forte la mattina. “Coce!”, come dicono qui…

Così Arianna sveglia i bambini e mette fretta al gruppo, ripetendo continuamente che non possono fare tardi perché Antonio, detto "’O pulptàr", li aspetta per la colazione, sta già preparando tutto. Oggi si muovono in groppa ai robot da lavoro, i parenti di Fùfilo. Sono già arrivati e non bisogna far tardi, perché i robot devono tornare alle loro occupazioni. Arianna e Gino ne hanno programmati dieci per raggiungerli lì, a Frontone. Queste bestioline meccaniche hanno una sorta di sella, usata normalmente per caricare merci o strumenti da lavoro e che, all'occorrenza, può essere usata come seduta. 

Salgono e cominciano la salita. La “sella” è molto ampia e ci si sta comodamente in due o tre per ogni robot. È come stare in groppa ad un cavallo, i bambini ridono ad ogni saltello. Devono raggiungere Punta Capo bianco, dall’altra parte dell’Isola.

Circa trenta minuti di sobbalzi ed eccoli arrivati. 

Proprio dove un tempo era il parcheggio Capobianco, ora sorge un bar, il bar di Antonio "’O pulptàr". È lì che fanno colazione, con vista panoramica sulla bellissima falesia che dà il nome al luogo. 

Come in ogni bar e ristorante dell'isola, anche qui, sulla porta, è esposto il menù con l'elenco ingredienti. È un elenco speciale, perché riporta luogo di origine del cibo e carbon footprint del suo ciclo produttivo. Anche questo è Clorofilìa. Questa del progetto “Menù intelligente” è stata un’idea di Flavio: ne ha curato ogni dettaglio ed ha messo in piedi la supersquadra che ha elaborato le certificazioni, i metodi, le scale di giudizio e tutto quello che serviva per realizzarlo. 

Ma la vera rivoluzione l'ha portata Ugo! Ugo è un nickname, non è il suo vero nome. Forse solo Flavio sa come si chiama davvero "Ugo". Fa parte della sua natura: è un informatico di altissimo livello, professionale come pochi ma, in maniera del tutto equivalente, un gran cazzarone, alleato di Gino in molti scherzi e goliardate. 

 Ugo ha permesso che tutti i cibi che arrivano sull'isola siano tracciati e codificati, con tecnologia cloud. Così ogni punto vendita che li espone può mostrarne, grazie ad una serie di schermi, la provenienza ed il certificato, in tempo reale e senza sforzo. Lo sforzo di questa enorme mega-elaborazione dati la fa il software inventato da Ugo. Lo sforzo di elaborare e presentare tutte queste informazioni, lo fa il server di Clorofilìa. I commercianti devono solo occuparsi di accendere lo schermo e di tracciare tutte le merci in ingresso. Ogni cibo ha un codice di provenienza, espresso in un QR code che può essere letto da qualsiasi smartphone. Ogni volta che il cibo fa un passaggio viene tracciato, ed il suo impatto ambientale (questo è il carbon footprint) e la sua posizione vengono ricalcolati.

Inoltre, una tabella specifica racconta quali sono i cibi di stagione in quel periodo, le loro caratteristiche nutritive ed i modi per prepararli. 

– Quasi tutto il cibo servito nel bar proviene da Ponza. Quando siamo arrivati, era esattamente il contrario. Qui sull'isola non si produceva quasi più niente. 

– Ma, zio Flavio, che se ne facevano di tutte le serre dell'isola, se non le usavano per produrre cibo? 

– Le serre, sull'isola, le abbiamo portate noi, Mattia. Sono serre speciali, hi-tech, progettate da me, Arianna, Gino ed Ugo. In particolare da Gino ed Ugo.

– Zio Gino e zio Ugo, ce lo raccontate?

– Ué, guagliunciè, magnt 'a pastarell’ e famm’la magnà in santa pace… 

– Gino, ma dai, cosa ti costa? Finisci la colazione e poi ci racconti, dai… 

– Dai, zio! Tieni contento Mattia!

– Chiara e Licia. Siete due infami, lo sapete che ho un debole per voi e non posso dirvi di no. Chiara, sei la mia stella, la mia geologa isolana preferita...

– Anche l'unica… 

– Eh, ma bell'accussì ce ne stanno poche... E tu, Licia… 

– Sono la tua “nipote” preferita, lo so… 

– Ecco! Dopo la sfogliatella ed il cappuccino mi dedico a voi, dai. 

Gino, diminutivo di Luigi Capoccia, può essere riassunto in questo passaggio. Gino è tutto qui! Burbero e burlone solo in apparenza. Generoso e dinamico nella realtà. Gino è stato ed è, a tutti gli effetti, una delle locomotrici del progetto, nonché lo “zione” di tutti i bambini.

– Flavio tiene na capa tanta, ma poi, quando si tratta di pensare a cose pratiche, si perde… E quindi io e Arianna ci siamo messi sotto e gli abbiamo progettato, in pochi mesi, un sistema che, fino al 2020, era solo teorico. Abbiamo costruito le serre autosostenibili e le abbiamo chiamate “ZAPPÀM”, che è l'acronimo di Zona ad Alta Produzione di Puzza di Asparago Marcio… 

– Gino, sei sempre il solito idiota! Questa è come la storia di Spazzolo! Le serre si chiamano High Efficiency Recycling Greenhouse, o HERG. 

– Arià, quello è un nome buono per le pubblicazioni scientifiche, vuò mettere HERG cu ZAPPÀM?

– ZAPPÀM è troppo bello, non si batte! Zio, sei un genio! 

– Grazie marmocchié, vado avanti. Al di fuori della serra c’è una vasca, una mini-piscina, che si alimenta con l'acqua piovana e con le falde. Nella vasca c’è un allevamento di pesci. L'acqua della vasca è usata per innaffiare le piante nella serra, perché, grazie ai liquami dei pesci, è già ricca di azoto e fosforo e non c'è bisogno di altri concimi. 

– Sì, Gino. Lo so che mi chiamo Ugo e nei confronti degli Ugo c'è sempre un certo pregiudizio. Pregiudizio che tende a farti dimenticare il ruolo fondamentale che questo Ugo ha avuto in tutta la faccenda. Ma ricordati che a gestire la baracca, lì, c'è uno dei miei computer, che, con vari sensori, controlla in continuo i livelli di azoto e fosforo ed accende e spegne in automatico i filtri, se serve, in base ai valori impostati da Flavio. E funziona quasi sempre bene, perché lo ha fatto Ugo...

– E certo Ugo. ’O dico sempre io: “Ma come fa uno che si chiama Ugo ad andare oltre le tre lettere del nome suo”. Eppure, come dici tu, Ugotto mio, hai fatto un buon lavoro. Mica te volevo negà ’a fatica… 

– Fottiti… Ah ah ah!

– Pozz continuà? Allora, le piante si trovano dentro le serre. Pomodori, pesche, zucchine, melanzane… Di tutto. Stanno su un letto di lana di qualcosa… Com'è che si chiama, Flà? 

– Lana di roccia. Ma il “letto” può essere anche in fibra di cocco, torba… Quello che serve, in base alla coltura. Le piante sono disposte su due o tre piani. Le piante da frutto sono sui piani alti, o in un angolo della serra se questa è bassa. Negli strati più bassi alleviamo ortaggi e insalate e, se la luce è poca, le illuminiamo con lampade LED. Livelli e quantità di concimazione e irrigazione vengono decisi da un software, che regola, in maniera robotizzata, le distribuzioni. 

– E anche quello l'ha progettato Ugo, che sarei io! Il software per autoregolarsi usa anche una serie di sensori installati nei substrati e sulle piante. 

– Insomma, tutto robotizzato… Usiamo meno della metà dei concimi, nessun trattamento chimico e l'acqua viene quasi tutta riciclata. Produciamo frutta e verdura tutto l'anno, usando pochissime risorse. Di serre così, sull'isola, ce ne sono quasi trenta. Alcune sono piccole qualche metro quadrato, altre sono alte fino a sette metri. E sono sempre nei pressi delle valli o nelle piccole pianure, dove è più facile recuperare l'acqua e gestire le vasche. E poi, nelle valli, risentono meno del vento battente. 

– Fico! Zio Flavio, una cosa non l'ho capita... Perché le serre puzzano? 

– In realtà, Mattia, a puzzare non sono le serre, ma le compostiere che abbiamo all'esterno. Le usiamo per produrre il concime. 

– Le compostiere sono un'idea di Arianna. So’ scatolotti de ferro, fetenti assaie, all'interno dei quali tutti gli scarti delle colture vengono messi a fermentare e maturare per tre o quattro mesi. Quanno ’a cosa fetente, ’o compòst, è pronto, lo usiamo come concime. 

– Una serie di sonde di temperatura e umidità regolano la gestione della massa, grazie ad un software…

– Che hai fatto tu, zio Ugo?

– Ormai l'abbiamo capita la filastrocca! Povero zio Ugo…

– Vi voglio bene, piccole canaglie! Facciamo così, mentre camminiamo vi racconto una storia veramente interessante. Altro che ’sto progetto delle serre. Ne ho scritti di software fichi, io!

Così, seduti su una terrazza con vista su Capo Bianco, godendosi cornetti e frutta di stagione, il gruppo inizia la preparazione per la scarpinata quotidiana. I robot, zampettando come capre, tornano al loro lavoro quotidiano. Con i viaggiatori rimane solo il solito, fedele Fùfilo. Cominciano la salita verso Monte La Guardia.

La strada verso la cima è costellata di terrazze sulle quali si coltivano ulivi e vigne. Agricoltura eroica, la chiamavano nei primi anni Duemila e, in questo caso, anche artistica, perché, ispirandosi al primo esempio del genere, Masseria La Mastuola di Massafra, le terrazze che ospitano le vigne sono state realizzate seguendo il profilo della collina e delle valli. A Ponza, questi terrazzamenti li chiamano "le catene". Con l'inizio del progetto Clorofilìa le catene sono state risistemate ed adattate, anche grazie all'aiuto dei robot da lavoro. Lo spettacolo che offre questo “disegno” è incantevole perché, come un vestito aderente, accentua le curve del monte ed offre colori diversi in ogni stagione. Dai giochi dei verdi in primavera ed estate si passa agli arancioni e ai rossi in autunno e inverno. E, ovviamente, il vino che si ricava da vigneti così è superbo, perché la circolazione dei venti e dell’umidità sono giusti ed equilibrati rispetto alle esigenze delle vigne.

Salendo tra le terrazze, oltre a godere della bellezza delle vigne e degli ulivi, si gode della vista dell'intera isola. Uno spettacolo unico, emozionante, che fa apprezzare appieno la bellezza di questa virgola di terra adagiata sul Mar Tirreno. 

Anche se la vista è incantevole e l'umore è alto, la salita della fatica si fa sentire. Si fermano all’ombra di un gruppo di ulivi, e Arianna ne approfitta per raccontare quel paesaggio dal suo punto di vista. 

– So che, per voi che siete nati qui, vivere così è normale. Ma per noi, che venivamo da Roma o da altre città d’Italia, vivere in un posto che ha una sola strada per andare ovunque era davvero impensabile. Questo serpente che stiamo “inseguendo” da quando siamo partiti è l’unica via che permette di andare in ogni posto dell’isola. Pensate come doveva essere quando siamo arrivati qui, venti anni fa: autobus a benzina o diesel, macchine e moto rumorosissime, mezzi di tutti i tipi che ti sfrecciavano davanti ogni volta che mettevi un piede sulla strada e, soprattutto, pensate che puzza che c’era! Puzza di benzina e di diesel, che ti entrava nelle narici e non ti lasciava.

Non potevo sopportare questa situazione, così mi sono data da fare per trovare una soluzione. Ed abbiamo inventato il sistema che oggi conoscete tutti.

– Zio Gino, hai dato un nome strano anche a questa invenzione?

– No, no, non mi sarei mai permesso. L’ho sempre e solo chiamata “la circumponziana”, il nome che gli ha dato tua madre, Ettore. Era già un capolavoro accussì!

– Ecco, almeno questo! Quello della circumponziana è stato il progetto più impegnativo di tutti, perché un conto era portare novità come Spazzolo, un conto era portare gli alberi e l'acqua con l’acquedotto, un altro bel conto era convincere tutti a rinunciare quasi completamente alle auto private per usare un sistema pubblico e condiviso. Però i benefici sono stati talmente tanti che ormai, trascorsi quasi dodici anni da quando abbiamo finito i lavori, i cittadini di Ponza non possono più fare a meno della circumponziana. E ci credo! Abbiamo creato una metropolitana su gomma, elettrica, che attraversa l’isola ogni dieci minuti ed è collegata ad una miriade di macchinette elettriche, silenziose ed agili, che fanno da “spola” tra la metropolitana e le zone lontane dalle fermate. Ormai, per attraversare l’isola o per muoversi a Ponza porto, non serve più prendere l’auto privata, tutt’al più si ha bisogno di un piccolo robot da lavoro o di uno scooter per arrivare alla fermata più vicina! Puntuale, pulita, silenziosa e bella, la circumponziana! E pensare che all'inizio tutti volevano andare in giro solo con la propria auto! Che proteste che abbiamo dovuto sopportare! È stata dura, nei primi anni…

Come il resto del progetto, anche questa “rivoluzione” raccontata da Arianna non aveva nulla di fantascientifico o di incredibile. Queste tecnologie esistevano già tutte negli anni Duemila. Eppure, spesso rimanevano confinate nel limbo del “non è applicabile” o del “si può fare, ma non qui…”.

La svolta, questa sì fantascientifica, è stata riuscire, finalmente, a rendere concrete tutte le idee che fino al 2020 erano ferme sulle carte degli scienziati. Riuscire a rendere reali le innovazioni progettate e immaginate, a rendere reali i sogni di un futuro migliore.

Clorofilia è nata perché questo gruppo di “pionieri” ha capito che tutti i sogni degli scienziati erano sogni per pochi sognatori. Che bisognava trovare il modo di tradurre quelle ambizioni in qualcosa di “reale” per tutti. Che bisognava tradurre lo “scientifichese” nel linguaggio di tutti i giorni. Perché il paradosso era proprio lì: un futuro felice ed in equilibrio con l’ambiente esisteva solo nella mente di pochi studiosi, quando, invece, bisognava farlo diventare il futuro ambìto da tutti!

– E indovinate chi ha progettato il sistema che gestisce il traffico? 

– Ugo, ‘a fernsc o no, cu chesta cantilena? 

– Dai, zio, raccontaci quella cosa divertente che ci hai promesso prima!

– Va bene, va bene. Quest'ulivo qui, su questa piccola altura, e questa vista mi ispirano! Anche se ci vorrebbe una bella birra… 

– Birra? E perché?

– Eh! Allora, dovete sapere che il progetto Clorofilìa mi ha sempre entusiasmato e mi ci sono lanciato subito a capofitto, ma… i primi inverni qui, sull'isola, da soli, senza cinema, senza teatro, senza pub affollati… Che palle! Io ho studiato a Roma e sono nato e cresciuto nelle Marche, a Pesaro. Ero abituato alla movida, ragazzi… Così, ho trovato un modo per divertirmi un po'.

Un pomeriggio, un lungo pomeriggio di pioggia, un lungo pomeriggio di pioggia invernale, di quelli che ti bloccano in casa, bevendo una bella birra ho avuto l'illuminazione. E mi sono messo a scrivere un codice. In sole tre ore di intenso lavoro, ho prodotto DCR!

– E che è? Non ne abbiamo mai sentito parlare… 

– DCR, Dillo Con un Rutto. La prima APP che misura l'intensità dei rutti, la loro profondità ed intonazione e gli assegna un voto. Il voto tiene in considerazione potenza, cioè la vibrazione che produce, e intensità, cioè la durata.

– Una cosa seria, insomma… 

– Una cosa serissima, caro Aurelio! Ogni volta che realizzi un bel ruttone, la DCR ti invia una notifica sullo smartphone comunicando il voto assegnato al rutto e la posizione in classifica.

– Wow, c'è una classifica? 

– Sì, avevo installato di nascosto la APP nei telefoni di tutti usando la rete aziendale, dicendo che era una APP per il team building.

I bambini non riescono a smettere di ridere, si buttano per terra a pancia all'aria, rotolando persino. Ugo, soddisfatto, sottolinea che con quella APP i pomeriggi non erano più lunghi e noiosi…

– Ecco, appunto! Erano, al passato. Sappiate che la APP è stata disinstallata dai telefoni di tutti.

– Aurelio è un vero bacchettone, ragazzi. Che ci possiamo fare. Anche se ricordo perfettamente un suo rutto da dieci punti che lo ha portato in testa alla classifica per quasi due settimane. Ah ah ah!

I bambini continuano a ridere a crepapelle. Poi si riprende il cammino, con passo leggero.

Proseguendo la salita verso Monte La Guardia, Luca, il figlio di Flavio e Sara, chiama Ugo a squarciagola, ma non fa in tempo a finire la “o” del suo nome che gli parte un rutto gigante!

– Quanti punti ho fatto, zio? 

Gli adulti non sanno se ridere o arrabbiarsi, così lasciano perdere, lanciando occhiate traverse ad Ugo. 

Ma Ugo non molla e, fiero, risponde:

– Secondo me era un otto, forse otto e mezzo, ma, purtroppo, come sapete, la APP non è più in uso, e il mio sogno di costruire una società dal rutto libero è andato distrutto. Era un sogno… da avanguardia. Troppo, evidentemente. Peccato! 

– Ah ah ah, zio, mi sto divertendo tantissimo! Perché non abbiamo mai fatto prima una cosa del genere? È troppo bello raccontarsi storie vere… 

Tra chiacchiere e scherzi, il gruppo continua a salire verso Monte La Guardia e, grazie al fedele Fùfilo, che trasporta tutto il necessario sulla sua groppa, arrivano sul pianoro nei pressi del Faro antico, che qui chiamano "il semaforo" e montano le tende per accamparsi per la notte.

Quando è ormai tutto pronto, è quasi ora del tramonto. Chiara ed Elena chiamano tutti e li invitano a guardare verso ovest. Lì sotto ci sono gli scogli detti "le Formiche". Quando il mare era più basso di così, le Formiche erano una serie di piccoli scogli affioranti, molto aguzzi, da cui tenersi alla larga. Ora sono anche peggio, perché sono proprio a pelo d’acqua o subito sotto la superficie di qualche centimetro e chi ha barche con la chiglia profonda rischia di arenarsi. Le Formiche, nel 2040, vengono sempre nominate solo come fonte di disgrazia: “Quello si è arenato alle formiche", "quell'altro ci ha quasi rimesso le penne" eccetera.

Ponza. Le Formiche

Ma, viste dalla cima del monte, sono tutta un'altra storia. Le Formiche sono bellissime. Delle lame di roccia che, al tramonto, creano giochi di luce stupendi. Elena le tiene sempre sott'occhio perché, secondo le leggende dei pescatori, intorno alle Formiche si trova sempre un sacco di pesce e, quando non ci sono i pescatori, ci vanno i delfini. Solo che, in vent’anni, ad Elena non era mai capitato di vederli, questi famosi delfini delle Formiche. E invece, oggi, sono tornati. Sono proprio lì, intorno agli scogli, a banchettare. Da lassù si vedono solo i riflessi che i loro dorsi producono riflettendo la luce del tramonto. Ma sono riflessi inconfondibili, sono delfini!

Rimangono un po' in contemplazione, mentre Chiara racconta a tutti che le Formiche, e tutte le rocce lì sotto, sono nere perché la zona dell'isola in cui si trovano ha una storia diversa dal resto. Le rocce vulcaniche di Monte La Guardia sono più recenti rispetto alle altre rocce dell'isola. L'eruzione data un milione di anni, ed è formata da lava trachitica; ovvero, il domo del monte si è formato quando l'isola era già emersa, e le eruzioni sono state di tipo idromagmatico. Durante l'eruzione, cioè, l'acqua entrava nel comignolo del vulcano, facendo raffreddare la lava molto in fretta e creando giochi di forme e cavità molto particolari. Alla parata degli Scotti, oltre che a Le Formiche, ci sono esempi bellissimi di questo tipo di rocce. Di questo stesso periodo sono Ventotene e Santo Stefano. Ventotene è quel che resta di un enorme cono vulcanico esplosivo che è stato attivo, forse, fino a 300.000 anni fa e che poi è collassato in mare. Da qui Ventotene si vede benissimo, la “ricetta” è perfetta: un’isola sullo sfondo, il mare azzurro nel mezzo e lo sguardo sconfinato verso l’orizzonte. Le emozioni si aprono in un abbraccio ed il pensiero può vagare. Francesca, più ispirata che mai, “lancia” una delle sue storie.

Perché non si può costruire un bel futuro senza una buona storia su cui appoggiarsi. L’isola, ancora una volta, ne ha una da raccontare. Francesca è la sua bocca.

– Guardando il mare da questa prospettiva, con lo sguardo rivolto a sud, mi viene in mente la storia delle navi coralliere. Nella seconda metà dell'Ottocento, Ponza era al suo massimo splendore. La gente si occupava di pesca e di agricoltura. Sull'isola si stava, tutto sommato, bene. I ponzesi, in particolare, erano specializzati nella pesca d'altura, la pesca del pesce spada, e nella raccolta del corallo, un'attività che avevano ereditato dai loro avi, gli abitanti di Torre del Greco, venuti qui a colonizzare una parte dell'isola. La joint venture, come la chiameremmo oggi, tra Torre del Greco e Ponza era una “potenza” nel campo della raccolta del corallo, famosa in tutto il Mar Mediterraneo: si scambiavano o mettevano in comune navi, equipaggi e finanze. E qui, sull’isola, abitavano i più famosi e più bravi corallieri d'Italia.

Girando per il Mediterraneo, avevano scoperto l'isola La Galite, cento miglia a sud della Sardegna, di fronte alla città tunisina di El Kale, La Calle in epoca francese.

I ponzesi conoscevano già La Calle, perché scappavano lì quando volevano evitare di pagare le tasse, quando l'isola era troppo affollata o, nella gran parte dei casi, quando l'esercito li chiamava a combattere e loro non volevano andarci! Un rifugio di ponzesi "mariuoli", insomma!

Tra i vari "mariuoli fuggitivi" c'era un certo Antonio D'Arco che, nel 1867 "se ne scappó" da Ponza a La Calle su una nave coralliera di Torre del Greco per sfuggire ad una condanna. Aveva picchiato a sangue un coatto, ed era ricercato. 

– Ma, zia, i “coatti” di Roma? 

– Ma no! I coatti erano persone che venivano confinate sull’isola. Erano costretti a stare qui come se Ponza fosse una enorme prigione. Domani, scendendo in paese, prometto di raccontarvi anche questa storia.

Comunque, cinque anni dopo essere arrivato a La Calle, Antonio D'Arco prese una barca, la famiglia, sette fucili da caccia, quattro mobili, qualche animale, qualche seme ed occupò l'isoletta La Galite, proclamandosene padrone.

– Seeee! Che matto!

– Infatti. Fatto sta che, dopo qualche tempo, lo raggiunse Giuseppe, suo fratello. L'isola cominciò a diventare presto un vero e proprio piccolo regno, tanto che la Francia, che all'epoca dominava sulla Tunisia, chiese ai tunisini di inviare una nave a vapore per far sloggiare i ponzesi.Era il 1873. Antonio D'Arco avviò una piccola guerra di resistenza, ma aveva solo sette fucili! Così si arrese. A patto, però, che i tunisini gli… pagassero il disturbo, per così dire. Volle un indennizzo in cambio della resa. E se ne tornò a La Calle. Però, Antonio, fermo non poteva stare, così già nel 1877 tornò di nuovo sull'isola. La Tunisia, stavolta, mandò subito una guardia, una sola... una di numero, con tanto di bandiera nazionale, per sottolineare che quella era e rimaneva terra tunisina. Questa situazione stava bene a tutti, così cominciò una pacifica convivenza. I coloni ponzesi divennero addirittura duecentocinquanta, perfettamente organizzati, come se fossero a Ponza. Con le istituzioni, il dialetto ed i santi protettori identici a quelli dell'isola madre. Insomma, una piccola Ponza in mare di Tunisia.

– Fico! Che spettacolo, zia. Questa storia è veramente incredibile. Ma è vera? 

– Sì, sì. Verissima, Licia! 

– E sono ancora lì, i “ponzesi tunisini”? 

– No. Purtroppo, la storia è finita male. Durante la Seconda guerra mondiale, l'Italia di Mussolini dichiarò guerra alla Francia. Di contro, i francesi arrestarono tutti i ponzesi di La Galite rimasti cittadini italiani. Quelli che, invece, erano diventati francesi, andarono in guerra con la Francia. I ponzesi, però, proprio come Antonio D’Arco, non sanno stare fermi! Così, dopo la guerra, i ponzesi di La Galite ripresero la “marcia”, se ne andarono in giro per il Mediterraneo e l'isola si spopolò. Nel 1967, sull'isola erano rimasti solo sessanta ponzesi. A metà degli anni Settanta, a La Galite era rimasto un solo abitante, che di cognome faceva, ovviamente, D'Arco. 

– Wow. Che figata! Ponzesi “all over the world”. Grazie per questa storia, zia. Mi è proprio piaciuta. Mi fa pensare che il mare non sia un limite ma un territorio da esplorare.

– Grazie a te, Elettra. Adesso a dormire! Buona notte a tutti.

Il piccolo campo improvvisato, con le tende hi-tech in fibra di carbonio, la cucina mobile, Fùfilo e tutto quello che abbiamo conosciuto in questi giorni, è presto pronto e silenzioso: i bambini sono stanchi e, dopo una rapida cena, vanno dritto in tenda. I grandi si ritrovano sotto il faro, ad osservare le stelle.

– Mi pare che il viaggio stia funzionando, non pensate?

– Sì, Aurelio, è stata veramente una grande idea. Presi dai nostri impegni, dai nostri sogni, dai nostri figli, non avevamo mai pensato di prenderci il tempo per fare il bilancio di questi ultimi venti anni, in modo leggero, attraverso le nostre storie.

– Anche la DCR fa parte della nostra storia…

– Ugo!

– Ok, scusate… Scherzi a parte, è incredibile come, anche dopo venti anni, quest’isola ci parli ancora e continui ad ispirarci.

– Festeggio il parto di questo raro pensiero filosofico di Ugo con una riflessione altrettanto pretenziosa: le isole sembrano l’esatto opposto di questo sconfinato cielo stellato: piccoli mondi chiusi, ti fanno pensare che tutto sia sotto il tuo controllo, o, almeno, che tu possa davvero conoscerle in ogni angolo, che non abbiano segreti… E, invece, sono esattamente come questo cielo: infinite. Perché in realtà sono solo una piccola parte dell’immenso che le circonda.


Marco Mastroleo, Latina 28/02/2021

con la revisione editoriale di Gioconda Bartolotta

Se questo capitolo vi è piaciuto, vi aspetto la prossima Domenica per il Capitolo 12 (il programma completo delle uscite è su www.clorofilia.org).

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Approfondimenti:

- Il Semaforo di Monte La Guardia, Ponza: https://www.ponzaracconta.it/2012/02/23/il-semaforo-del-monte-guardia/

- Le Formiche, Ponza: https://www.ponzaracconta.it/2013/10/28/le-formiche-di-ponza-una-leggenda/

Ringraziamenti:

Grazie a Claudio Lucchi, collega (agronomo) e amico, col quale ho condiviso anni e anni di riflessioni sui temi dell'agricoltura sostenibile, dell'agricoltura di precisione e del ruolo dell'agricoltura nel futuro dell'umanità (oltre a innumerevoli altri argomenti da "essere o non essere"). Flavio è un po' lui...

Grazie a Giulia Santoro per il supporto ed i consigli.

Giorno 6: Città

Giorno 6: Città

Tutti adorano (o forse no) il flauto dolce! Chi non ha mai lanciato una qualche forma di imprecazione dopo dieci o quindici minuti passati ad ascoltare (passivamente e suo malgrado) un ragazzo delle scuole medie che studia musica torturando quel magnifico strumento? Fiulì, fiulà, prrrrr… prooooo, fuuuuu… una tortura! Ecco cos’è il flauto dolce, se non lo sai suonare!
Ebbene, la sveglia dell’ultimo giorno del viaggio dell’allegra combriccola di Clorofilìa inizia con una sorta di ululato suonato in onore del sole che sorge. Un ululato flautato…

– Michè! Smettila con quel coso!

– Te tiro na scarpa…

– Smetti di suonare o, giuro, non te la do più!

– Cos’è che non gli dai più, mamma?

– Ecco, Michè, hai svegliato pure Elettra…

– Alisea, amore mio… Quest’alba mi ha ispirato. Mi sono ricordato di come ci siamo conosciuti… e mi sono sentito ispirato. L’ho fatto per te! Era puro romanticismo.

– Papà, cos’è che mamma non ti dà più?

– Niente Elettra, niente.  Dormi un altro po’, ché è ancora presto. Dormi, a papà.

Così, grazie al trambusto generato dal flauto di Michele, un po’ ridendo, un po’ no, anche gli altri cominciano ad uscire dalle loro tende e si danno da fare. Chi inizia a smontare il campo, chi prepara la colazione, e chi, come i bambini,  gira tra le tende cercando di svegliare i pochi che, insensibili alla… musica, dormono ancora.

– Ma, ’st’arma de distruzione di massa, non l’avevano vietata?

– Eh Flavio, non c’è verso! Ogni volta gli chiedo: “L’hai lasciato a casa il flauto, vero?”. Lui mi dice sempre sì, e sempre se lo porta… non c’è speranza.

– Che poi, Aurè, ma tu l’hai mai capito perché cazzo a scuola devono usà  ’sto maledetto flauto dolce pe fa fà musica ai regazzini?! Non potrebbero usà cose meno aggressive, tipo l’ukulele, la diamonica… Quand’ero regazzino io se usava la diamonica…

– Flavio, pure ’na batteria è meno aggressiva di quel flauto, se lo suona Michele…

– E comunque, Aurè, con la celebrazione dell’alba abbiamo cominciato e con la celebrazione dell’alba lo finiamo,  ’sto viaggio. Solo che il primo giorno abbiamo iniziato la giornata con una ode al sole, oggi chiudiamo con una serenata poco rasserenante…

– Ah ah ah! Grazie Flavio, e grazie a tutti voi per aver apprezzato la mia musica.

– Grazie a te, maestro Michele, e ringrazia che Gino è ancora troppo addormentato per sfotterti, sennò...

I bambini ridono per la situazione, e chiamano Michele per andare a giocare con lui. Perché Michele è così, il più cresciuto dei ragazzini. Ed il flauto, quel suo modo di suonare il flauto, lo dimostra appieno!

– Zio, ci racconti meglio quella cosa che hai detto prima? È vero che tu e zia Alisea vi siete conosciuti grazie al flauto?

– Se volete ve lo racconto io!

– Eh… Vai, vai, Alisea, amore della mia vita. Vai, dacci dentro anche tu. Dai!

– Ah ah ah! Michele, lo sai che non potrei fare a meno di te e del tuo flauto. Anche perché l’isola è piccola e quando suoni, non c’è scampo per nessuno…

Comunque, è andata così: come vi raccontava Michele qualche giorno fa, sono arrivata qui a Ponza a settembre del 2019. Ero in vacanza, solo in vacanza. Non avevo nessun altro obiettivo, al contrario di tutti voi qui. Mi piace alzarmi molto presto, così una mattina sono scesa sulla spiaggetta di Ponza porto con l’idea di godermi l’alba, comprare la colazione per tutto il gruppetto degli amici con cui ero venuta qui e andare a casa a svegliarli. Nel 2019 il livello del mare, come vi abbiamo detto già un sacco di volte, era più basso di così, quindi la spiaggia era più ampia. Proprio in riva al mare c’era una sola persona. All'inizio non capivo, mi sembrava di sentire una specie di rumore, un… qualcosa…

 – Nu suon… Non ho parole! Altro che rumore: era musica!

– Sì, Michele mio, musica, ok. Dicevo, vedo ’sta figura, una specie di asceta, con i capelli lunghetti, la barba, con i piedi in ammollo nell’acqua, che cerca di suonare un flauto. Qualunque persona sana di mente sarebbe scappata via. Io, invece, gli sono andata incontro e l’ho salutato. Eravamo gli unici due mattinieri amanti del mare su quella spiaggia…. E così abbiamo iniziato a chiacchierare.

– Ma ci potete pensare? Appena ho visto ’sta venere che camminava nell’acqua, ho smesso di suonare e sono rimasto a bocca aperta. Meno male che ha parlato lei!

– Sì. Per fortuna, diciamo, ha smesso di suonare ed è rimasto a bocca aperta. Altrimenti sarei scappata… Invece l’ho trovato incredibilmente simpatico. E siamo andati a fare colazione insieme.

– E i tuoi amici? La colazione che dovevi portargli?

– Boh, in qualche modo avranno fatto… Io sono rimasta tutto il giorno co ‘sto personaggio qui. E non sono più andata via dall’isola.

– Mo me fat chiagnere. Ja! A vulimm fa’ ’sta colazione, o no?

– Grazie, Gino, per aver contribuito anche tu a celebrare degnamente quest’ultima alba del viaggio.

Dopo la tanto sospirata colazione, caricano tutto su Fùfilo e si mettono in viaggio.

Dal “Semaforo” di Monte La Guardia, il gruppo scende percorrendo il sentiero che arriva al porto, passando dalla zona degli Scotti. 

Al bivio de «U Spàlece» girano a sinistra e puntano verso Ponza porto. Da quel punto si vedono il piccolo promontorio che chiude la baia a nord-est,  e, in sequenza, il cimitero, proprio sul promontorio, l’isola di Zannone e, in lontananza, il golfo di Terracina con Sperlonga e Fondi sullo sfondo.

Quest’isola, ancora oggi, non è solo Clorofilìa, è tutta la sua storia. O meglio, Clorofilìa non sarebbe nata senza tutta la storia di Ponza e, se hai una buona guida che ti accompagna, una semplice camminata può trasformarsi in un viaggio nel tempo.

La prospettiva è troppo bella. Francesca non riesce a resistere e comincia a raccontare.

– Lo sapete che quel promontorio è il punto più anticamente abitato dell’isola? Proprio lassù sorgeva una villa romana e, in mare, dall’altra parte, si trova la Grotta di Pilato, uno dei punti più belli dell’isola. La conoscete?

– Io sì, zia.

– Beh, fino a qualche anno fa era visitabile; si poteva arrivare all’ingresso maggiore anche con una piccola barca. Ma oggi che il mare si è alzato, è molto più complicato raggiungerla ed entrare. E si vede anche meno bene, nonostante la posizione da cui la stiamo guardando. 

– Anche io la conosco, zia. Però non so cosa sia, esattamente.

– Sembra una semplice grotta, ma non è così. E oggi si può capire bene cos’è solo guardando le foto di qualche anno fa o facendo snorkeling, magari con una torcia. Sul mio smartphone ho qualcosa che ci può aiutare… Una foto ed un disegno, di quelli che si trovavano sulle guide turistiche fino a qualche anno fa.

– Zia, questo tuo telefono è come un’enciclopedia dell’isola. Hai tutte le cose antiche!

– Sì, mi piace troppo, non posso farne a meno. Adesso vi racconto la storia della peschiera. Più in là, se vi va, vi racconto la storia di Pisacane.

– Piscia che?

– Pi-sa-ca-ne, non quello che hai detto tu…

– Quello del corso, Livia. Anche a me ha sempre fatto ridere questo nome… Sono curioso di conoscere la storia di questo signore, chissà che c’entrano i cani!

– Niente Ettore, i cani non c’entrano. Dai, dopo ve lo racconto. Vi dicevo della frotta. Si tratta di una peschiera, in realtà. Cioè, sono tre vasche scavate nella roccia dai Romani per catturare ed allevare pesci.

– Anche alle grotte di Pilato ci siamo ispirati quando abbiamo progettato le serre con le vasche d’allevamento. Una versione moderna delle peschiere romane.

– Eh sì, grazie Flavio! Dicevo, una serie di canali univano le vasche con il mare aperto, con un sistema di saracinesche per regolare il flusso delle maree e permettere il ricambio dell’acqua.

Probabilmente la peschiera serviva a rifornire di pesce la villa romana sul promontorio. Era come avere un grande frigorifero: i pesci venivano allevati o pescati e poi conservati nelle vasche. Quando volevano mangiarli, andavano lì, li pescavano con un retino e li cucinavano…

– Mia nonna avrebbe detto: ’Sto pesce è frisco frisco, Gino. È bbuono assaje...”

– Grazie, Gino. Oltre a tua nonna però, un po' prima che lei nascesse, anche Plinio aveva raccontato della peschiera.

— Francé, sei sicura? Guarda che mia nonna è morta a 105 anni, mi sa che ’sto Plinio l’ha pure cunosciut…

–Gino! Plinio, detto “il Vecchio”, era un autore romano. È morto nel 79 dopo Cristo, durante la famosa eruzione del Vesuvio.

– Guarda che mia nonna, all’epoca, era ’na ragazzetta e sulla lava del Vesuvio ci ha surfato!
Sto pazziann… ja! Lo so chi era Plinio.

- Plinio ci racconta che qui dentro si svolgevano anche riti di buon auspicio, una sorta di riti magici che i sacerdoti pagani usavano per interpretare il futuro.
Dal comportamento dei pesci che nuotavano verso la superficie dell’acqua, al richiamo del sacerdote, gli ospiti potevano provare ad indovinare il loro futuro. Luigi Maria Dies, uno storico che ha studiato questi riti, per descriverli, scriveva: “Correvano le delicate murene a mangiare le leccornie loro offerte dai visitatori: erano pesciolini salati, frutte fresche schiacciate, briciole lucenti di pan fresco, bocconi preferiti e, dal modo come si accostavano oppure rifiutavano, con un colpo di coda, le ghiottonerie offerte, i relegati, specialmente, credevano di interpretare i futuri eventi della loro triste sorte”.
-Fico… Che superstiziosi, però…
- Si, i romani osservavano la natura e provavano sempre a interpretare i “segni” che poteva racchiudere. C’era anche un’altra credenza legata alla grotta. Probabilmente, come riporta Dies, nelle vasche venivano allevate le murene. I sacerdoti pensavano che le murene fossero pesci incrociati con i serpenti. Credevano che potessero venire fecondate una sola volta all’anno, nella notte in cui una certa stella illuminava con i suoi raggi la superficie del mare con una precisa inclinazione. Per far avvenire questa “fecondazione” tagliarono, sul tetto della grotta, una finestra che rispettasse l’allineamento astrale e facesse entrare i raggi di luce di quella stella. Considerando l’inclinazione della finestra e la posizione delle stelle nel cielo in epoca romana, la costellazione magica era probabilmente quella del Drago.
-Strafico… quando possiamo andare a fare snorkeling lì?
- Un giorno vi ci porto, ma il mare deve essere calmissimo.
- Sennò ci mandiamo un drone!
- Oh, Ettore, ma tu sei proprio fissato coi droni eh!
- Ah ah. Dai, continuiamo la discesa.

Si rimettono in viaggio e scendono verso gli Scotti, costeggiando il mare. 

– Papà, ora che sappiamo come si sono conosciuti zio Michele e zia Alisea, ci raccontate come vi siete conosciuti tu e mamma?

– Sì, Laura, va bene. Ma non è una storia divertente come quella di Michele! Io e Arianna ci conoscevamo già dai tempi del liceo. Ci siamo sempre frequentati, anche durante l’Università. Anche perché eravamo entrambi nel movimento studentesco. Organizzavamo feste, manifestazioni… casini vari, insomma. Ed eravamo anche iscritti entrambi al Partito Democratico. Un giorno, era il dieci aprile 2013, durante una festa del PD, Arianna, sempre frizzante e vivace, stava proiettando su un maxischermo un video girato durante un intervento presso una ludoteca. Nel video lei ballava e cantava con i bambini. Era al centro dell’attenzione, tutti gli occhi puntati su di lei. Non era una ballerina, ma era molto agile e si muoveva bene, sinuosa e delicata. Rideva, si divertiva, era raggiante e ogni tanto si aggiustava gli occhiali sul naso. Io ero in piedi accanto a lei, le tenevo la mano, la abbracciavo e la accarezzavo, per farla rilassare ed aiutarla a contenere l’emozione. Le facevo complimenti, sussurrandole parole nelle orecchie. Tenendola stretta.

Ad un certo punto, alle nostre spalle si presentano due ragazze, maglione e jeans, ci prendono da parte e cominciano ad attaccarci: “Certe scene sono indecenti”, “Non ci si scambia effusioni davanti a tutti”, “Non ci si tocca in pubblico” e così via.

Arianna, in tutta risposta, si incazza come una iena, le chiama “bigotte”, ricorda loro che non possono andare in giro a parlare di “apertura, uguaglianza e democrazia” se loro per prime non sono mai uscite dall’ottica ottusa del cattolicesimo di inizio secolo. Che la loro “democristianità” non è tollerabile se diventa “oscurantismo”, eccetera eccetera. Le avevano rotto gli argini, come è successo a Michele con la farmacista. Non riuscivo a trattenerla!

Qualche giorno dopo, il diciannove aprile 2013, questa divisione tra democristiani e socialisti, che avevamo vissuto sulla nostra pelle, e le questioni non risolte interne al Partito vennero a galla. Si doveva votare per il Presidente della Repubblica. Durante un’assemblea pre-voto interna al partito si era deciso di votare tutti per Renano Perdi. Invece, durante la votazione in Parlamento, ben centouno senatori  del PD non hanno votato per lui, tradendo gli accordi e facendo vedere al Paese la spaccatura profonda che c’era all’interno del partito. Noi siamo “scappati” appena in tempo, da quel momento in poi è cominciata l’ascesa di un certo Matteo Rocci. Un disastro per quel che rimaneva del PD…

– Papà, non ci stiamo capendo niente…

– Sì, scusate. Io e la mamma siamo usciti dalla sala, mano nella mano. Mentre uscivamo, Arianna mi ha tirato verso di lei e mi ha baciato, con lo schiocco, per farsi sentire da tutti. Non vi dico la reazione delle “bigotte”! Bocca aperta e braccia spalancate. Per un bacio! Da non credere! Mi ricordo ancora oggi cosa mi disse : “Sai che c’è? Adesso le effusioni ce le scambiamo davvero. Per ripicca? Sì, per ripicca… Scemo di un amico timido: baciami!”.

Da quel giorno, abbiamo cominciato a costruirci una visione tutta nostra del mondo che volevamo immaginare e per il quale volevamo spenderci.

Anche da qui è nata Clorofilìa, dal crollo delle ideologie politiche e dei sogni condivisi. Per noi era diventato necessario sceglierci un “piccolo sogno privato”, “un’utopia minimalista”. Per questo, dopo tanti anni, quando abbiamo capito qual era la nostra strada, ci siamo tuffati in questo progetto senza farci troppi problemi e senza troppi dubbi.

– Ma, allora vi siete innamorati per ripicca?

– No, no. Semplicemente avevamo bisogno di uno schiaffone che ci svegliasse e ci ricordasse chi eravamo. Lo schiaffone ce l’hanno dato quelle due “bigottine” lì. Eravamo al terzo anno di Università, da allora siamo sempre stati insieme, non ci siamo lasciati mai!

 

Nell’ascoltare quella storia, tutti i ragazzini e buona parte dei grandi si sono fermati, godendosi il racconto su quel tratto della strada da cui si intravedono il mare, da una parte, ed il borgo, dall’altra; a metà strada tra il mondo dei paesaggi, dei sogni e delle speranze, ed il mondo reale, quello degli uomini.

Plin. Il suono di una notifica su un cellulare riporta tutti con i piedi per terra, nel presente. Da un cellulare parte una vocina metallica, robotica: “Potenza 8,5, intensità 10. Congratulazioni, il tuo “super ruttone” ti porta in testa alla classifica. Hai appena realizzato un rutto da primo posto!”.

I bambini scoppiano a ridere e, tra le risate varie, uno di loro chiede:

– Ma la APP non era stata distrutta? Zio Ugo, non ce la racconti tutta…

– Scusate, è che, quando bevo acqua gassata e cammino, per me è come bere una birra! Non potevo perdermelo… Primo in classifica, comunque, eh? Ho dato il meglio di me sulla durata...
– Sì, la APP è stata disinstallata dal telefono di tutti, tranne, evidentemente da quello di Ugo. Grazie, Ugo. Stavo raccontando che ci serviva uno schiaffone per ricordarci chi siamo e tu, con un rutto, lo hai fatto alla grande. Ecco chi siamo! Un gruppo di fuori di testa!

Riprendono a camminare e arrivano, infine, nel borgo.  Quel piccolo borgo nel quale vivono e lavorano tutti i giorni. Girano verso destra percorrendo via Parata, scendono da via Roma e giungono alla chiesa dei Santi Silverio e Domitilla.

Il punto è che, quando questo gruppo di “fuori di testa” è arrivato sull’isola, tra il 2019 e il 2021, il borgo era completamente diverso da come appare adesso. Cioè, guardandolo dal porto sembra esattamente identico al passato ma, in realtà, nella sostanza, è profondamente diverso.

Già nel 2020 esistevano tecnologie e tecniche che permettevano di trasformare qualsiasi costruzione in una struttura confortevole ed ecosostenibile. Ma quanti usavano queste tecniche?

Questi piccoli e banali accorgimenti di edilizia o di ingegneria, tutti insieme, sono stati applicati qui per la prima volta. Con un progetto ambizioso e coerente. Chi veniva sull’isola, a vedere cosa stavano combinando, rimaneva stupito perché poteva vedere il futuro con i propri occhi. Poteva capire, senza troppo sforzo di fantasia, che un modo diverso di vivere ed abitare era possibile, bastava mettersi a… costruirlo. Clorofilìa ha dato al mondo una visione del futuro, un futuro sereno ed in equilibrio con l’ambiente, una visione che, ancora solo nel 2030, era inimmaginabile, visti i disastri ambientali che il mondo stava vivendo. A Ponza c’era il sole dopo la tempesta!

Quando il progetto Clorofilìa ha cominciato a prendere piede, con la piantumazione degli alberi, la riattivazione dell’acquedotto romano, l’arrivo dei robot e così via, insieme all’entusiasmo sono arrivati soldi. Un sacco di gente ha voluto investire in questa visione del mondo così diversa. Alcuni per gioco, altri per “fede”, fatto sta che l’isola ha cominciato a ricevere finanziamenti per portare avanti il sogno.

Per prima cosa l’energia elettrica. Sull’isola costava davvero troppo e per mettere a pieno regime autobus e barche elettriche serviva energia economica e pulita. Hanno cominciato con il finanziare impianti domestici: fotovoltaico, solare termico per l’acqua calda e microeolico.

Il problema di queste tecnologie è che sono “brutte” da vedere.

Cioè,  Ponza è bellissima, perché la linea delle case di età borbonica e il prospetto del borgo visto dal mare sono rimasti identici a come erano nel 1800. Quindi l’uso di queste tecnologie non doveva cozzare con la bellezza del borgo. Così, dove possibile, i pannelli sono stati nascosti dietro le volte delle case, nella faccia non visibile da terra. Gli isolani, poi, hanno “inventato” un modo ingegnosissimo per nascondere i pannelli, dove i tetti delle case erano piatti o troppo in vista. Sui tetti hanno montato staccionate di legno o di ferro e ci hanno fatto crescere piante rampicanti o piccole siepi. I tetti di Ponza sono diventati verdi. Cioè, bianchi e verdi. Il profilo del borgo non è più lo stesso, certo, ma è più allegro. Si è aperta una sorta di gara a chi allestiva il tetto più bello e, nel giro di soli due anni, quasi tutti i tetti di Ponza si sono riempiti di piante e pannelli.

Nei punti più alti, più esposti e dove c’era spazio, qualcuno ha montato anche delle micro pale eoliche ad asse verticale. Sono delle piccole colonnine, alte poco più di un metro e mezzo, bianche, che si mimetizzano con i comignoli delle case.

Così, sfruttando i tetti, si è arrivati  a produrre la metà dell’energia elettrica necessaria a Ponza. Un altro po’ di energia era prodotta con le pale eoliche classiche, quelle ad asse orizzontale, montate sui crinali più ventosi dell’isola. Eppure, non bastava. Per mandare avanti i traghetti elettrici, le barche, i battelli, gli autobus e tutto il resto, l’energia prodotta dai tetti non era sufficiente. Allora la compagnia nazionale dell’energia elettrica ha usato il mare intorno all’isola per un grande esperimento: convertire in energia elettrica il moto ondoso. 

Presto, al largo di Ponza, verso sud, nel tratto di mare che la separa da Ventotene, è nata una nuova isola. Non vulcanica come le altre, ma fatta di acciaio e gomma. Una piattaforma galleggiante ancorata al fondo del mare grazie a robuste corde d’acciaio. La piattaforma si chiama “Inertial Sea Wave Energy Converter (ISWEC)” e trasforma l’energia prodotta dalle onde — la più grande fonte rinnovabile inutilizzata al mondo – in energia elettrica, adattandosi anche alle differenti condizioni del mare.  In pratica produce quasi sempre, ma produce al massimo quando il mare è mosso.

Il limite di tutte queste tecnologie, però, è dato dal fatto che producono molto in alcuni momenti (con il vento, il sole, il mare mosso), e poco o niente in altri. Quindi, gli ingegneri di Clorofilìa hanno dovuto inventare un sistema per rendere disponibile l’energia anche quando non può essere prodotta, ovvero di notte, quando non c’è vento e quando il mare è calmo, insomma… Anche questa è stata un rivoluzione, ma, come quasi tutto quello raccontato fino ad ora, non ha richiesto l’invenzione di qualcosa di nuovo, solo l’utilizzo di tecnologie già esistenti!
Hanno, dunque, installato in diversi punti dell’isola, soprattutto nei centri abitati, una serie di accumulatori ad idrogeno, basati sulla tecnologia delle celle a combustibile, come quelle usate per le auto ad idrogeno. 

Cioè, raccontandolo meglio: l’energia elettrica prodotta dai vari sistemi viene utilizzata per produrre idrogeno tramite elettrolisi. L’idrogeno viene accumulato in grandi bombole stabilizzate e poi usato per produrre, di nuovo, energia elettrica, facendolo reagire con l’ossigeno. L’energia prodotta viene poi redistribuita per i vari usi, sfruttando la rete elettrica esistente. Un processo ad emissioni zero: l’unico scarto è l’acqua! 

Tutto fantastico, se non fosse che l’idrogeno è un gas molto pericoloso da maneggiare ed intorno a questo progetto si sono concentrate per molto tempo le ansie degli isolani e di tutti gli altri. Ora che funziona, da tanti anni e senza problemi, quasi non se ne ricordano più. Inoltre, molti abitanti dell’isola sono stati coinvolti nella gestione e manutenzione di queste piccole centrali, creando anche posti di lavoro.

Passiamo all’acqua, ora. Quella che arriva dall'acquedotto viene mandata nelle piccole cisterne di cui ogni casa di Ponza dispone. Le acque “usate”, poi, grazie a delle piccole stazioni di filtraggio fisico e microbiologico, vengono depurate e rimandate nelle case, per essere utilizzate per gli scarichi. Poi, ancora una volta, l’acqua viene depurata e filtrata ed usata in agricoltura. Ogni linea ha i tubi di un colore specifico: le acque pure in blu, le acque filtrate la prima volta in viola, le acque per l’agricoltura in verde. Come avviene in Israele, dove neanche una goccia della poca acqua che hanno viene sprecata!

Ed anche intorno a questo sistema, sono nati nuovi posti di lavoro.

Passeggiando in mezzo alle case della “vecchia-nuova” Ponza, il gruppetto, seguito dal fedele Fùfilo, raggiunge la piazzetta della Chiesa, dalla quale si può godere la vista di tutto il porto.

– Zia Francesca, ce la racconti la storia che ci hai promesso?

— Sì certo. Sedetevi qui, sui gradini della chiesa di Santa Domitilla. Sapete chi era santa Domitilla?

– No.

– Flavia Domitilla era figlia dell’Imperatore Vespasiano e sorella degli imperatori Tito e Domiziano. Era stata confinata qui sull’isola, punita per essersi professata cristiana. Dopo qualche anno tornò a terra, a Terracina, dove morì. Molti secoli più tardi fu ricordata come una delle prime martiri cristiane. Per questo è celebrata in una chiesa qui a Ponza.

– Cioè, i Romani facevano così? Se uno la pensava in modo diverso da loro, lo mandavano in esilio su qualche isola lontana?

– Beh, non solo i Romani! Queste isole sono state usate come luogo di confino da quasi tutti. I Borbone avevano costruito un “bagno penale” qui sull’isola, ovvero una specie di grande dormitorio dove vivevano i “coatti”.

– Ah sì, quelli di ieri…

– Sì, ed anche in epoca fascista, per un certo periodo, furono mandate persone qui, in confino.

– Pure Mussolini, quando fu deposto, fu portato qui a Ponza in esilio, per qualche giorno. Abitò in una casa del borghetto di Santa Maria, dove abitiamo noi. Quasi un contrappasso!

– Sì, Aurelio, vero. I confinati fascisti vennero poi trasferiti a Ventotene, dove erano stati costruiti dei grandi capannoni. Il bagno penale di Ponza non era più sufficiente, gli oppositori del regime erano… un po’ troppi! Insomma, queste isole hanno sempre ospitato ribelli, pensatori e malviventi in “soggiorno forzato”...

– Noi, zia, a quale delle tre categorie apparteniamo?

– Ah ah ah, Ettore… Non l’avevo mai vista in questo modo, però sì, è vero, un po’ in esilio coatto siamo anche noi! Comunque, la storia che volevo raccontarvi ha a che fare anche con i coatti e si è svolta proprio qui, in questa zona dell’isola. Quando la leggo, mi fa sorridere. Un po’ per l’italiano in cui è scritta, un po’ per l’atmosfera che suscita. Però, vivere quelle situazioni deve essere stato tragico! Soprattutto la fine. Non è stata delle migliori. Cioè, poteva finire meglio, ecco!

– Dai zia, spara!

– Sì, ecco, vi leggo un altro passaggio del libro del Tricoli. Comincia così: 

“Il partito benanche liberale Italico ideò un movimento nel reame napolitano, ed a riuscirvi sopra il vapore di Sardegna “il Cagliari” furono imbarcati 18 casse di armi come mercanzie, 25 emigrati corsi, romagnoli, coi regnicoli Carlo Pisacane come capo, Giovanni Nicotera e Giovanni Falcone quali sottocapi, ed invece di far rotta di spedizione per Tunisi, approdavasi in Ponza il dì 27 giugno 1857, verso le 5 pomeridiane, pretestando (cioè usando come pretesto) danni alla macchina…”.

In pratica, il partito liberale, capitanato da Carlo Pisacane e da Giovanni Nicotera, provò a portare la rivoluzione nel regno di Napoli. Partirono a bordo del “Cagliari”, un vaporetto, ed arrivarono a Ponza fingendo di avere un guasto…

“Vi accorreva il capitano del porto Montano Magliozzi, il pilota pratico, e l'uffiziale di piazza, che furono osteggiati (presi in ostaggio), la deputazione sanitaria era divertita (cioè fuorviata), mentre due lance inosservate per la esterna scogliera sbarcavano 18 dei cennati individui armati di due botti (cioè fucili a due colpi), con giubba e berretta rossi, immettendosi pel vicolo La Caletta, preceduti dallo stendardo ancor rosso, gridando ‘Viva l'Italia e la Repubblica’, tirando fucilate…”

Insomma… sorpresa! Dalla nave scendono diciotto tizi armati che cominciano a sparare fucilate per aria, gridando “Viva l’Italia”... Da pazzi…

“Attoniti i custodenti e gli abitanti nel vedere quei furibondi impadronirsi della scorridoia (barca) di marina, scambiarsi i colpi con taluni soldati, uccidendo il tenente di servizio, ed occupata parimenti la Gran Guardia, la batteria-molo e il palazzo del comando, ove si erano riuniti gli uffiziali, e segnata la resa tutti furono prigionieri sul Vapore. Ecco in breve i terrori della rivoluzione scoppiarono, armandosi da circa due mila dei servi di pena fra ex militi, rilegati, e presidiarii con le armi ricavate dalla truppa, e disbarcate dal legno in due botti (fucili a due canne), tromboni (fucili con una canna molto larga), pistole e stili (spade).

Fattasi imponente la massa, rabbrividivano i naturali (ovvero gli abitanti di Ponza) perché tutto cedeva, aperto il bagno (il bagno penale), e le altre prigioni della rilegazione, e circondariali, un torrente di forsennati coi gridi sediziosi gridava per lo abitato e pei casali, crescendo in audacia e in eccessi, allorché il fuoco consumava le officine della comandanzìa, del giudicato, del Municipio e de’ posti degli urbani, di polizia e di gendarmeria: indi col proclamare la Repubblica quei ribaldi sbrigliati, mettevano a sacco l'intera isola, non esclusi commestibili e gli arnesi ancorché ìnfimi…”.

Cioè, in pochissimo tempo mettono sottosopra l’isola, liberano i coatti e sequestrano i militari portandoli sulla nave, in un lampo! E cominciano ad appiccare incendi qua e là per spargere terrore. E saccheggiano tutto quello che c’è da mangiare, benché “infimo”, come dice il Tricoli.

E qui arriva la parte "grottesca" di tutto questo teatrino. I rivoltosi che fanno? Proclamano la Repubblica e… fanno suonare la banda! Cioè, erano proprio altri tempi! La banda! Che spettacolo! E poi le parole, “la obbligata illuminazione”, per dire l’illuminazione pubblica… Ve lo leggo. Fate attenzione!

“Mentre essi festeggiavano all'imbrunire della sera, bensì con la obbligata illuminazione, e banda musicale, aumentavanzi le angosce de’ sbalorditi ponzesi rannicchiati per le remote caverne coi funzionari, ed eternavasi i momenti del lottare benanche fra i disagi, ed il certo sterminio, dopo tanto bisbigliare e ladrocinare, senza speranza di soccorso o freno a quella deplorabile scena. Verso la mezzanotte salpava intanto al tiro di cannone il piroscafo con ancora 323 di essi servi di pena de’ più audaci dirigendosi a Sapri presso le coste di Salerno”.

Ora, c’è un altro passaggio,  in quanto vi ho appena letto, che mi piace molto. Il Tricoli dice che gli abitanti erano “sbalorditi, rannicchiati per le remote caverne…”. Caverne? Cioè? Cioè le bellissime case-grotta a basso impatto ambientale, con circolazione forzata dell’aria, ristrutturate in bioedilizia… Insomma, le meraviglie in cui abitiamo adesso, il Tricoli le chiama “caverne”. Ed i poveri ponzesi erano lì rannicchiati e tremanti. Che scena!

– Certo, Francesca. Pensate, bambini, che le case-grotta, ancora fino a non molti anni fa, erano davvero umide e fredde come caverne. È stata un’altra delle mega-imprese di Clorofilìa quella di rendere le case ospitali e salubri come sono adesso. Abbiamo dovuto smontare tutte le piastrelle e gli intonaci impermeabili che avevano usato per decine di anni e sostituirli con malte naturali e traspiranti per far sì che il tufo potesse “respirare”. E abbiamo dovuto scavare cunicoli e camini per far fuoriuscire l’umidità in eccesso. E abbiamo montato delle ventole domotiche per far circolare l’aria tra le camere, distribuendo aria fredda ed aria calda grazie a particolari sensori che…

– Arià, avemo capito. Fermate, daje!

— Sì, Flavio, hai ragione, mi sono lasciata andare… Francesca, finisci tu!

– Arianna, giuro, non ripeterò la parola “caverne” per un bel po’! Insomma, Pisacane ed i suoi, dopo aver messo su tutto questo trambusto nella piccola Ponza, con tanto di banda e festeggiamenti vari, salpa diretto a Sapri, vicino Salerno, per continuare la rivoluzione nel regno di Napoli.

E qui scatta l’imprevisto: mentre la nave dei ribelli repubblicani è in viaggio verso sud, dal porto di Ponza, nascosto dal buio della notte, parte un gozzo (una barca da pesca) con otto rematori diretto a Gaeta. La guarnigione viene informata della rivoluzione e, in poche ore, i Borbone mettono in moto il meccanismo che porta Carlo Pisacane a morire, con pochi altri dei non molti che lo avevano seguito, sulle coste di Sapri. Povero Pisacane! L’idea era buona: venire qui a Ponza, formare un esercito con tutti i reclusi del bagno penale ed attaccare i Borbone con un mini-esercito. Ma i reclusi non l’hanno seguito! Codardi? Fedeli ai Borbone? Egoisti? Chissà! I tempi non erano ancora maturi. Pisacane è stato un eroe solitario, morto da traditore, che ha guidato una rivolta in nome dell’Italia unita.

– Dai, che peccato, dopo tutto il trambusto che avevano fatto qui!

– Eh già. Però poi l’unità d’Italia s’è fatta ed è per questo che oggi la piazza ed il corso principale di Ponza sono intitolati a lui.

– Mangiamo qualcosa, dai. Nella pizzeria qui sotto, magari, vicino al faro. E poi rientriamo a casa.

– Andate, io vi raggiungo subito. Vado un attimo a salutare Silverio.

– Silverio chi, papà? Qui a Ponza si chiamano tutti Silverio!

– Silverio Mazzella, della libreria “Il Brigantino”. Francesca, come dice Gino, è una azionista di maggioranza di quella libreria, ha speso un sacco di soldi lì… In pratica è un po’ anche sua! E poi lei e Silverio sono diventati molto amici. Adesso che è anziano, va a salutarlo spesso. È lì che ha imparato tutte queste storie sull’Isola.

– Fico! Quel posto piace tantissimo anche a me. Vado, ho famissima. Vado a mangiare la pizza da Gennaro. Ciaoooo.

In pochi passi abbiamo percorso un pezzo di storia: più volte si era provato a far partire una rivoluzione da Ponza. Quella dell’Italia unita di Pisacane fallì. Ci riuscirono altri: nel secondo dopoguerra, dalle idee nate dai confinati sulle isole pontine a Ventotene cominciò la storia dell’Europa unita. Un’altra storia, dell’altra isola dell’arcipelago.

Nel 2020, invece, Ponza non è rimasta a guardare. Da qui è partita una rivoluzione che ha unito l’Italia e l’Europa al resto del mondo: una visione, un sogno. Da dieci anni a questa parte, l’isola è meta di architetti, ingegneri, biologi e naturalisti che vengono a studiare “il sistema Ponza”, per provare ad applicarlo nei loro Paesi. Ché in qualche modo, in Italia, la storia deve passare dalle isole, perché è sul mare che nascono le idee migliori!

Dopo la pizza d’ordinanza, con vista mare, il gruppetto si rimette in cammino.

– Mi sono davvero divertito! Attraversare Ponza a piedi è stato veramente incredibile. Non avevo mai visto l’isola da questa prospettiva. Prima di fare questi ultimi passi, che ci condurranno a casa, volevo ringraziare tutti, per aver raccontato un pezzo della nostra storia. Sono commosso!

– Grazie a te, papà, per la bella idea. Io, parlo per me, penso di essere un po’ diverso da come ero anche solo cinque giorni fa.

– Io, invece, dico che, mo, ce vo nu bell gelàt. Per festeggiare la fine di questa camminata, intendo...

– E grazie a Gino, che riesce a mandare sempre tutto in caciara!

Si muovono verso la Gelateria del Corso. Attraversano piazza Pisacane, passano davanti al Municipio e camminano lungo il corso.

– Aurelio e Michele, c’è una cosa che dovete vedere.

– Cosa,Ugo?

-Guardate qua…

– Minchia! Andiamo al molo. Grazie, Ugo. Andate a casa ed aspettateci lì. Mi sa che stasera lo chiudiamo col botto ’sto viaggio...


Marco Mastroleo, Latina 14/03/2021

con la revisione editoriale di Gioconda Bartolotta

Se questo capitolo vi è piaciuto, vi aspetto la prossima Domenica per il Capitolo 14 (il programma completo delle uscite è su www.clorofilia.org).

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Approfondimenti:

- A proposito delle grotte di Pilato: https://www.ponzaracconta.it/2011/07/06/biografia-di-un-paese-7/
La foto delle grotte di Pilato è tratta da iPonza: https://www.iponza.it/luoghi/lt/cosa-fare-a-ponza-e-luoghi-di-interesse/le-grotte-di-pilato/

- Il Sistema ISWEC per sfruttare il moto ondoso esiste davvero! Per saperne di più: https://www.eni.com/it-IT/attivita/onde-mare-energia.html

- Sulle celle a combustibile ad Idrogeno, invece, consiglio il sito dell'ENEA: https://energia.enea.it/celle-a-combustibile-e-idrogeno/

Ringraziamenti:

Grazie a Giulia Santoro per il supporto ed i consigli.

da un'idea di Marco Mastroleo

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