Giorno 1 - La Luce

— Su, ragazzi, è ora di andare. So che è presto ma non possiamo perderci lo spettacolo.

— Zio, sappilo: ti odiamo!

Così il gruppo parte, è il 25 giugno 2040. Sono circa vent’anni che questa storia è cominciata ed è arrivata l’ora di raccontarla. Di raccoglierne i vari pezzi e comporli su una tavola, su una mappa. È arrivata l’ora di far capire ai figli perché le madri ed i padri li hanno condotti fin lì. 

È l’ora di fare luce. 
Ed infatti questo racconto inizia con la luce. Con un omaggio alla Luce. 
Alle 5,30 un autobus elettrico si ferma nel piazzale sottostante Monte Incenso. Scendono, assonnati e sfatti dalla levataccia, dieci adulti, dodici bambini… ed uno strano trabiccolo.

— Zio, ma perché abbiamo portato Fùfilo?

— Fùfilo è arrivato sull’isola prima di voi, abbiatene rispetto. È il mio robot da lavoro preferito. Mangia solo energia solare, non sparge feci in giro e porta carichi pesantissimi.

— Sì, certo, lo so cosa è un robot da lavoro, ce ne sono almeno cento sull’isola. Intendevo, perché proprio Fùfilo?

— Perché gli voglio bene...

— Ma è un robot! 

— E tu sei un ragazzino pettegolo. Zitto e cammina!

Ecco cosa intendevo prima, dicendo che quando immaginavo il futuro non lo pensavo così! Il futuro che immaginavo doveva per forza essere molto diverso dal mio presente: la catastrofe sarebbe arrivata. Quella famosa catastrofe che tutti gli autori di fantascienza raccontavano immaginando i loro mondi post-apocalittici sarebbe arrivata eccome! Quello che non sapevano era che non sarebbe durata un minuto o un giorno, ma anni... Una catastrofe sfumata nella quotidianità.

Invece, quello che nessuno scrittore aveva immaginato era che il nostro presente, il nostro benessere, le nostre comodità, il nostro punto di vista sul mondo, sarebbero sì stati stravolti dagli eventi ma non da eventi epocali e “magnifici”. Sarebbero stati eventi invisibili, quasi “normali”. Una rivoluzione dai contorni sfumati... Assomigliava più a quel famoso aneddoto della rana nella pentola d’acqua bollente: i cambiamenti avvenivano, erano drastici, erano tutto intorno a noi ma non riuscivamo a vederli. Li vedevano solo alcuni di noi, li vedevano solo alcuni scienziati ed analisti, e ce lo dicevano anche: attenzione, così non va! Il clima sta cambiando, la povertà aumenta, le epidemie saranno all’ordine del giorno. Ma noi niente: avanti dritto! Li prendevamo per inutili sirene, e continuavamo come se niente fosse: a consumare, bruciare, conquistare, strappare terra ai boschi, disboscare foreste e buttare veleni nell’aria e nelle acque. Un eterno Carnevale...

Raccontare, oggi, che un gruppo di persone può tranquillamente salire su un autobus, partire, portarsi appresso un robot e fare una lunga passeggiata, mi sembra la cosa più naturalmente futuristica del mondo: vivere serenamente, vivere bene tutti... Questa è stata la grande rivoluzione!
È questo che ho visto in questa scena. Sembra banale ma non lo è: guardo questo robot, Fùfilo, come lo chiamano, e penso a tutto questo... e dire che si tratta solo di un robot da lavoro!
Ci vuole circa mezz’ora di cammino di buon passo, rallentato dal fatto che il sentiero, immerso nel bosco, è molto stretto, pieno di arbusti e di rami che ti spingono di qua e di là quando ci passi a fianco ma, finalmente, il piccolo e silenzioso gruppo raggiunge la cima del Monte Incenso, 111 metri sul livello del mare (nel 2020 erano 112 ma con l’innalzamento del mare di 1 metro, negli ultimi anni...). Nella famiglia dei monti, Monte Incenso è un nano ma è comunque il punto migliore per godersi il panorama verso la terraferma. 

Devono camminare un altro po’ per arrivare nello spiazzo panoramico, il bordo della falesia che cade tra Cala Gaetano e Punta Incenso. Poco oltre, verso Nord-Est, c’è l’isolotto di Gavi, ma da qui si intravede solo il suo profilo. E così, sono le 6,20 quando arrivano dove volevano arrivare. È il luogo più alto dell’isola che affacci verso Est. Giusto in tempo per l’inizio dello spettacolo. 

È l’alba. 

— Ogni tanto mi piace venire qui all’alba. Questo momento, questo rito dell’aspettare il sole che bagna con la sua luce le foglie degli alberi... Questa luce che sottolinea i contorni del paesaggio, che fa sembrare la terraferma laggiù molto più vicina di quello che è, perché la stacca dal resto del paesaggio, quasi ad evidenziare le montagne, a spingerle verso di noi, verso Ovest... Tutto questo, quest’attimo in cui quello che fino a poco prima era sfocato e buio ESPLODE, mi ricorda perché sono qui! Da vent’anni ormai. Mi ripaga della fatica che facciamo ogni giorno. Vengo quassù e faccio il pieno di energia, come le foglie di questi alberi. 

Aurelio... È più forte di lui, non resiste: deve essere “sacerdotale” in tutto quello che fa. Se non fosse cresciuto negli anni 2000 ma nel 1800 sarebbe sicuramente diventato un prete, ne sono convinto! Eccolo che riprende il suo racconto. È il suo momento, perché è stato proprio lui ad inventare la parte essenziale del Progetto Clorofilìa. 

— Ragazzi, guardatevi intorno… Questi alberi li abbiamo portati qui noi. Prima che arrivassimo sull’isola, questa spianata era solo piena di arbusti non più alti della nostra spalla. Ed ora... Che bel bosco di lecci! Una meraviglia che ogni mattina si illumina e comincia la sua vita. 
Clorofilìa. Sapete perché ci chiamiamo così? Gruppo Clorofilìa, Progetto Clorofilìa? Perché siamo fan sfegatati della Clorofilla! La adoriamo! Pensate, se non esistesse la Clorofilla tutta l’energia che ogni giorno arriva dal sole verrebbe “sprecata”. Si trasformerebbe in calore, in moto sì, ma... non produrrebbe vita!
Alla base della vita sulla terra c’è la Clorofilla. Questa molecola meravigliosa. Parlo della vita complessa, ovviamente. Delle alghe, delle piante e, di conseguenza, di tutti gli organismi che di piante si cibano. Se non ci fosse la Clorofilla, oggi la terra sarebbe abitata solo da batteri e virus. 
Per questo mi piace venire qui la mattina, su questa rupe sopra Cala Gaetano, il punto dell’isola che si illumina per primo. A rendere omaggio a questo momento in cui si accende tutto. Quando il sole colpisce le foglie e le piante si mettono in funzione. E tutto può ricominciare. 

— Per questo oggi vi abbiamo trascinati qui a quest’ora. Vogliamo cominciare questa avventura sull’isola partendo da questo momento. Con questa Ode al sole ed alla Luce. 

— Papà, ma noi non siamo religiosi, perché dovremmo pregare il sole?

— Non preghiamo. Lo ammiriamo. E veniamo a goderci questo momento magico, che fa bene alla salute. Che poi, in fondo, cos’è la preghiera?

Dopo aver ascoltato questo racconto, ci sono andato anche io su Monte Incenso all’alba. Volevo capire perché per Aurelio e gli altri fosse un posto così magico.

Beh, anche il sorgere del sole è una “cosa” che diamo per scontata. Avviene da sempre, è gratis ed è lo spettacolo 3D più emozionante del mondo: l’alba ha sicuramente qualcosa di profondo, che ti spinge oltre quello che vedi.
Eh sì. È come pregare: è entrare in contatto con qualcosa di “altro” da te. In pochi istanti, la luce irrompe tutto intorno, trasforma il paesaggio, e trasforma anche un pezzo di te. Tutta la natura che ti circonda si riaccende. Quando sorge il sole, a Monte Incenso, dimentichi anche di essere su un’isola in mezzo al mare: in una lenta sequenza, illumina il profilo di Ventotene, di Ischia, del Vesuvio e poi della lunga striscia di terra della costa del Tirreno, fino al Monte Circeo e a tutte le catene montuose che gli stanno alle spalle. Non sembrano così distanti! Se allunghi la mano rischi anche di riuscire a toccarle. Un paio di bracciate e sei a terra. 

La luce dell’alba stringe tutto in un abbraccio. È veramente un momento mistico!

Perciò me li immagino così, i nostri, in quel momento. Dopo aver respirato l’alba tutti insieme, dopo aver celebrato la dea Clorofilla, in silenzio ed in fila, uno ad uno, si alzano e si rimettono in cammino all’interno del bosco, come in processione, imboccando il sentiero che scende verso Cala Fonte. Sono centoundici metri di discesa verso il mare, verso la cala più bella dell’isola di Ponza!

Per arrivare a Cala Fonte attraversano Cala Caparra, una piccola frazione del paese di Le Forna. Quella di Cala Caparra è davvero una storia strana: nacque grazie alla caparbietà di alcuni abitanti di Torre del Greco, che scavarono qui case e grotte picconando nel tufo. Così ora sembra di essere su Tatooine, in Star Wars. Campavano di pesca, ancorando le barchette a Cala Fonte. Il porticciolo è protetto da un grande scoglio ma per tirare le barche a secco i pescatori usavano leve e funi. Almeno fino a che non è iniziato il progetto Clorofilìa.

— Cala Fonte è la mia preferita! Aurelio mi ha portato qui la prima volta che sono venuta sull’isola. Eravamo nel 2020, eppure questo posto sembrava congelato ai primi del Novecento. Le rimesse scavate nella roccia, le barche legate con le funi... un Paradiso! Se ho scelto di rimanere a Ponza con Aurelio è perché qui ho respirato qualcosa che mi mancava: semplicità e contatto con la natura. 

— Sì, Arianna, almeno fino all’arrivo di “Spazzolo”, come lo chiamo io...

Arianna e Gino, sempre in contatto come due cavi elettrici: se si toccano bene, fanno correre energia, se si toccano male... sono scintille! Per quanto si possa parlare di scintille con Gino: è il classico caciarone e casinista che si trova in ogni gruppo che valga la pena definire tale. “Sfotte”, come dice lui, chiunque gli capiti a tiro. E Arianna è sempre a tiro di Gino, dato che lavorano insieme. Sono i due ingegneri dell’isola.

Arianna, dimenticavo, è la moglie di Aurelio. Il suo esatto opposto, ancora non ho capito come facciano a stare insieme!

— “Spazzolo” qui ci sta benissimo, è il suo posto! Lo abbiamo progettato proprio tenendo a mente i colori e gli spazi di questo porticciolo. E poi è di legno, elegante: bello!

“Spazzolo” è l’idolo dell’isola. Una nave robotizzata che ha lo scopo di tenere pulito il mare dalle plastiche, sia galleggianti che sommerse. I pescatori di pesce di Cala Caparra sono diventati anche pescatori di plastica e rifiuti. E a Cala Caparra smistano i materiali, fondono la plastica recuperata e spediscono tutto sulla terra ferma, dove inizia il riciclo.

— Mamma, quando sei arrivata qui avevi già in mente di creare Spazzolo?

— No, mi sono solo lasciata coinvolgere ed entusiasmare da questo sogno. E, soprattutto, ho capito che la mia laurea in Ingegneria robotica poteva servire a qualcosa di più che a costruire piccoli maggiordomi. Aurelio, papà, mi ha stregata... Ah, comunque, prima che qualcuno si inventasse di chiamarla Spazzolo, questa barca aveva un nome bellissimo!

— E vabbè, Arià... Jà, nun te a’ piglià! 

— Sì, sì... Dicevo, si chiamava PiBoat PRR: Plastic Identifier Boat for Plastic Recovery and Recycling, anche detto “PiBi”. Nato, cresciuto e pasciuto all’IIT di Genova, l’Istituto Italiano di Tecnologia.

— Ma vuoi mettere con “Spazzolo”? Nun c’è paragone! 

Cosa dicevamo del dialetto? Che, stranamente, sopravvive ancora nel 2040? Gino... Gino è il re del dialetto! Parla altre tre lingue, ma al suo dialetto napoletano non sa rinunciare!

Torniamo a “PiBi”, o “Spazzolo”: è stato sicuramente uno dei pezzi essenziali del progetto Clorofilìa. È nato da una constatazione: per star bene sulla terra, bisogna avere un mare sano e pulito. Così è stato sviluppato e costruito questo prototipo, in origine su misura per piccole isole, piccole realtà come Ponza. Poi il modello è stato replicato in grande scala e ora tanti... “individui” come lui, ma più grandi, vengono utilizzati nella pulizia degli oceani. Mega “Spazzoli”, che vagano per le acque del mondo. C’è da dire, però, che nessuno di questi fratelli giganti ha l’eleganza e la bellezza dell’originale!

Passano il primo pomeriggio chiacchierando, giocando e ridendo. Quando il caldo cala, il gruppo risale a Cala Caparra. Attraversano il piccolo pianoro, a due passi dalla falesia che affaccia su Cala Cecata, e proseguono il loro viaggio verso Sud. La prossima destinazione è un’altra falesia a picco sul mare, dove sorge Forte Papa. Pianteranno le tende lì e si godranno il tramonto con una vista meravigliosa su Cala dell’Acqua.

Mi piace l’idea che ogni angolo di quest’isola, di questo enorme “esperimento scientifico”, sia legato ad uno dei componenti di questo gruppo. 

Forse il segreto del successo del progetto Clorofilìa sta proprio in questo, nel fatto che ognuno abbia saputo ritagliarsi uno spazio ed un ruolo e che, alla fine, si sia creata una piccola famiglia allargata in cui i bambini chiamano tutti “zio” e “zia”. Anche questa è un’idea romantica... In un mondo in cui eravamo convinti che ogni uomo è un’isola, qui, sull’isola, nessuno è davvero isolato! 

Cala Caparra e Cala Cecata sono sicuramente legati ad Arianna e Gino, così come Forte Papa, e qualunque altro sito archeologico sull’isola, sono legati a Francesca.

— Chissà perché, ogni volta che veniamo qui, il nome di questo posto mi fa pensare a battaglie navali, scontri in acqua, guerre...

— Forse perché si chiama Forte Papa! A proposito, zia Francesca, perché si chiama così?

Francesca Belvecchio, inventrice di storie, narratrice seriale di fatti storici, è l’archeologa del gruppo. Dai racconti dei giganti alla storia del più piccolo dei piccoli pezzi di coccio dell’isola e di ogni suo singolo sperone roccioso: tutto passa per le sue mani, dalla sua mente e dalla sua bocca. E, come Aurelio, neanche Francesca resiste alla sua indole: deve raccontarle, quelle storie! 

— Sì, allora... Un certo Giuseppe Tricoli, nel 1855, in un libro dedicato alle isole pontine, scrive... Un attimo che lo pesco sul mio smartphone, voglio leggervi esattamente le sue parole... Eccolo! Dunque, Tricoli scrive:

«L’amena ed ubertosa contrada della Forna nella stessa Ponza, lungi cinque miglia dallo abitato, si rimaneva ancora deserta, perché i primi coloni erano retrosi ad avervi possedimenti, anche per la poca sicurezza. Vi rimediò il Regnante colla costruzione del Forte Papa sullo sporgente riguardante la romagna (la zona circostante Roma), e che domini quel seno di ricovero, con tre pezzi di artiglieria, e ponte alzante». In pratica, Tricoli ci racconta che, per poter garantire una certa sicurezza ai coloni di Torre del Greco che verso la fine del Settecento erano venuti a vivere su questo lato dell’isola, qui a Le Forna, Re Ferdinando di Borbone fece costruire Forte Papa. Forse però, in quello stesso punto c’era già stata una fortezza, del 1500 o 1600, voluta da Papa Paolo III. Ed ecco l’origine del nome.

— Ma da chi dovevano difendersi?

— Si, zia, daje con le storie di guerra... ci piacciono!

— Mentre la zia racconta, sediamoci “in riva al cielo”. Il sole sta per tramontare e da qui la vista è impareggiabile.

— Allora, la storia ci dice che Ponza è sempre stata utilizzata come punto di rifornimento di acqua dolce per le navi che circolavano nel Mediterraneo e, proprio per questo, qui si sono svolti tantissimi scontri con i pirati saraceni. Anche i pirati, infatti, usavano quest’isola per fare rifornimento e, già che c’erano, razziavano, rubavano e distruggevano tutto ciò che trovavano. Per questo Ponza non era un posto sicuro, la gente non voleva viverci e, spesso, diventava proprio un covo per i pirati, che partivano da qui per compiere le loro razzìe lungo le coste del Lazio e della Campania.
Anche il terribile pirata Dragùt dopo aver attaccato Reggio Calabria e Napoli giunse a Ponza, saccheggiò l’isola e fece rifornimento. Poiché Dragùt era considerato «il terrore del Mediterraneo», la Repubblica di Genova, per evitare che i pirati arrivassero a fare danni anche nei suoi territori, mandò l’Ammiraglio Andrea Doria a dargli battaglia. Le sue quaranta galee incrociarono le cento di Dragùt e, al largo dell’isola di Ponza, avvenne lo scontro. Era il 15 luglio del 1552. Fu una battaglia epocale, nella quale il famoso e rispettato Ammiraglio Doria venne sconfitto. Perse ben sette galee piene di soldati e Dragùt continuò a razziare lungo le coste di Sicilia, Sardegna e Italia per ben tre anni.
Gli attacchi dei pirati continuarono anche quando Ponza cominciò ad essere di nuovo stabilmente abitata. L’isola faceva parte del Regno di Napoli e la famiglia reale dei Borbone per ripopolarla dopo secoli di abbandono — le isole pontine erano state abitate durante l’epoca romana ma col passare del tempo erano tornate ad essere quasi deserte — fece arrivare qui intere famiglie, dando loro un pezzo di terra, una casa e la possibilità di sfruttare la caccia e la pesca. Per prima cosa arrivarono famiglie provenienti da Ischia e da Procida, che si stabilirono a Ponza Porto, poi arrivarono famiglie da Torre del Greco che si stabilirono qui, a Le Forna.
Per difendere l’isola e i suoi nuovi coloni furono fatte costruire torri e forti e furono inviate guarnigioni di soldati a difenderla. Questo accadeva nel corso del 1700, eppure l’ultima razzia di cui abbiamo notizia è avvenuta nel 1805! Fu allora che ai ponzesi, per difendersi, fu concesso di diventare “corsari”. Potevano così, con il permesso del re, attaccare le navi dei pirati, le cui incursioni col tempo divennero sempre meno frequenti. 

— Allora Ponza è l’isola dei pirati!

— Sì, direi proprio di sì. Ecco perché, ogni volta che vengo qui a Forte Papa e guardo il mare, nella mia mente vedo passare vele e galee all’orizzonte e immagino come sarebbe stato vivere in quel periodo.

I bambini sono a bocca aperta. È la prima volta che sentono questa storia. Quasi da non credere, se non fosse che quegli eventi li ha raccontati zia Francesca e a lei c’è sempre da dar credito. La loro casa era stata “l’isola dei pirati”!

Un po’ per tutte le storie che hanno ascoltato, un po’ perché il tramonto mette soggezione, con la sua imponenza, un po’, ancora, perché sono svegli dalle cinque del mattino ed hanno vissuto “a pieni polmoni” ogni singolo istante di quella giornata, i bambini ora sono tutti abbastanza stanchi. 

Il fatto di avere a disposizione tende hi-tech in fibra di carbonio, leggere, traspiranti e che, praticamente, si montano da sole, aiuta non poco il gruppo. Mentre alcuni si concentrano sull’allestimento di quel piccolo campo improvvisato, altri preparano la cena. Fùfilo corre di qua e di là distribuendo cibo, pentole, materassini gonfiabili e tutto quello che serve per la notte. Era tutto stipato sul suo dorso!

Prima di andare in tenda, dopo una rapida cena, Gino compie il suo rito di ogni giorno: si avvicina a Fùfilo, lo spegne e lo saluta con una carezza.

— Zio, lo so che sono un ragazzino pettegolo, però ho capito perché vuoi tanto bene a Fùfilo, anche se è solo un robot. Oggi l’ho capito!

— Grazie Ettore. Voglio bene anche a te. Buona notte, fai bei sogni. 

— Buona notte. 

Che poi, la vera rivoluzione che questo progetto ha portato al mondo sta nella sua normalità!


Marco Mastroleo, Latina 03/01/2021

con la revisione editoriale di Gioconda Bartolotta

Se questo capitolo vi è piaciuto, vi aspetto la prossima Domenica per il Capitolo 4 (il programma completo delle uscite è su www.clorofilia.org).

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Ringraziamenti:

Grazie a Giulia Santoro per il supporto ed i consigli. Fùfilo e Spazzolo sono semi invenzioni o counque sono ispirati ad esperienze reali che sta portando avanti l'IIT (https://iit.it/ ), se siete curiosi, andate a visitare il loro sito.
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da un'idea di Marco Mastroleo

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