Giallo nella Palude redenta

Giallo nella Palude redenta

A proposito del romanzo di Antonio Scarsella

di Floriana Giancotti

Antonio Scarsella, in questa opera d’esordio, sceglie il giallo come genere letterario. Ma non un giallo alla moda, dove i cadaveri si susseguono, il sangue straborda e gli assassini sono degli psicopatici gravi figli più di Hitchock che di Freud. Il suo libro rientra nel genere, che già si può catalogare così, del giallo italiano. Un giallo d’ambiente, meditativo, storico, in cui l’investigatore mentre interroga luoghi e persone, interroga anche se stesso e l’indagine diventa un itinerario interiore di riflessione sugli uomini e sul potere.

Il romanzo inizia all’americana: c’è un cadavere di un uomo sotto un ponte, lungo l’argine di un canale di bonifica, ed il maresciallo Duilio Spadon, di origini venete come dice il cognome, deve sciogliere il mistero di un’intricata matassa. E così, proprio all’americana per stile e ritmo, comincia la ricerca.

Siamo in un capoluogo di provincia, Latina-Littoria, al centro dell’Agro redento, nel periodo che segue il secondo conflitto mondiale, quando la questione contadina era ancora uno dei problemi più importanti della vicenda nazionale. 

L’occupazione delle terre e gli scioperi alla rovescia  animavano la cronaca locale colorandosi, qui in Agro pontino, di una particolarità tutta interna alla storia di questo territorio, la conflittualità tra coloni assegnatari dei poderi dell’ONC e contadini poveri della collina lepina, che si erano sentiti espropriati delle terre della pianura e ne rivendicavano il possesso. 

La questione si complicava politicamente perché i coloni veneti assegnatari dei poderi votavano in massa per la Democrazia Cristiana, mentre i contadini poveri dei Lepini erano legati al Partito Comunista e al Partito Socialista, insomma i bianchi contro i rossi.

E’ questo il contesto in cui il maresciallo deve dipanare la sua matassa, mentre le indagini si fanno serrate e nutrono contemporaneamente la riflessione politico-filosofica che il giovane carabiniere ama. 

Questo è l’aspetto originale del romanzo: la riflessione storica scaturisce dalla vita quotidiana, dal confronto costante tra un vicino e lontano, tra un prima ed un poi.

Spadon è un carabiniere leale, “fedele nei secoli”, e perciò istintivamente rifiuta la pista politica delle indagini che subito viene imboccata da alcuni giornali locali e dai suoi superiori. 

Portare avanti il filo dei ragionamenti accumulando prove, in tempi brevi e con la sola forza delle sue analisi e della conoscenza del territorio, sarà la sua scommessa. 

Comincia così un doppio viaggio, quello in pianura, tra i poderi dell’ONC, per interrogare amici e familiari e quello sulle colline per inseguire le tracce di un disegno criminoso teso a nascondere le fila di un sistema di sottopotere che imbriglia la vita dei poveri coloni. 

Si realizza così un vero e proprio viaggio conoscitivo del territorio, dalla città razionalista, dalle sue piazze, i palazzi monumentali, i bar e le osterie che connotavano i luoghi, alla campagna: le migliare, l’Appia, la Pedemontana, i canali, i ponti, la ferrovia Velletri-Terracina, l’Abbazia di Valvisciolo, su su verso i paesi, Norma, Bassiano, Sezze. 

E mentre il paesaggio si apre sotto gli occhi del maresciallo, il suo orizzonte conoscitivo si allarga assieme all’orizzonte naturale che si allarga man mano che si guadagna in altezza.

E così camminando, fermandosi, osservando, il giovane arriva ad una prima certezza “gli uomini delle colline … abitavano dentro le mura … il colono invece viveva in campagna” questa distinzione apparentemente ovvia costruisce una differenza antropologica, è una differente percezione dello spazio e della relazione che modifica le modalità di vivere e costruire le azioni.

Antonio Scarsella è evidentemente catturato dalla storia di questo territorio, dal suo incrociarsi di vite, di situazioni, dalla mescolanza delle culture: i percorsi dell’indagine del commissario sono tutti occasioni per cercare di capire la conflittualità e varietà degli interessi che si confrontano e si scontrano sulle terre bonificate. 

Il rapporto tra pianura e collina è il filo rosso che tiene insieme i ragionamenti, suggerisce piste di ricerca per le indagini. Questo è il cuore della storia e della cronaca, nel tentativo di sfuggire agli stereotipi della Grande storia ed a quelli suggeriti dalle trame di potere che vorrebbero insabbiare la verità.

Il maresciallo Spadon, forte della sua fedeltà ai principi della Benemerita, forte della sua limpidezza e correttezza, osserva, riflette, si pone problemi, si fa domande, costruisce risposte. Risposte alle indagini, risposte alle domande che l’osservazione del territorio e degli uomini che lo abitano continuano a porre.

Il territorio è il deuteragonista del romanzo, una presenza costante nel racconto. 

Non è semplicemente sfondo o teatro dell’azione ma contiene i segni che spiegano la storia degli uomini:

«Il contadino sezzese pianta i carciofi, i pomodori, le melanzane, e poi li rivende cercando di ricavarne il maggior utile possibile. Il colono di Borgo Faiti alleva le vacche e consegna il latte a chi dice l’Opera, coltiva il mais, le bietole, il grano ma li consegna all’ammasso, agli stessi che gli hanno venduto i semi e i concimi e con i quali ha le cambiali agrarie. 
Il contadino di Sezze discute con gli altri contadini di come migliorare la propria esistenza, si mette in competizione. Il contadino del Faiti, invece, è da solo, lui con la sua famiglia, di fronte al concedente e al potere economico che lo governa. E il bisogno lo rende ancora più prigioniero di questo sistema».

Mentre la macchina del maresciallo si sposta attraverso le strade che solcano l’Agro redento o s’inerpica su quelle tortuose della collina, l’occhio indugia sul paesaggio, sui luoghi che lo nominano, così anche il lettore percorre quelle strade quei borghi, solca la pianura punteggiata dai poderi, sosta sulle piazze dei paesi, osserva costumi tradizioni ed uomini.

Si anima attorno a noi un mondo, tra le case coloniche si svelano rapporti, ora amorosi, ora nefasti, nei borghi e nelle osterie si raccolgono informazioni, si conoscono gli intrecci di interessi che funestano la vita dei coloni, si conosce la loro dignitosa povertà, il lavoro duro e costante, i lacci che li legano in una soggezione quasi senza scampo all’ONC ed ai Consorzi. Ed al centro c’è sempre la terra. L’atavico desiderio di diventarne proprietari, i sacrifici, le promesse, il riscatto, l’indebitamento, le speculazioni sul loro bisogno.

E poi l’opportunismo che non conosce cambiamento di regime: basta cambiare la camicia ed il mondo torna all’ordine di sempre,

La conclusione delle indagini è amara per il nostro maresciallo ed investe le sue scelte di vita. Così, mentre gli sembra di aver capito finalmente le caratteristiche di quel territorio che ha imparato ad amare, deve sperimentare un’incompatibilità tra la sua coscienza e la sua realtà lavorativa.

Insomma questo romanzo nasce come un giallo, ma diventa occasione per un’approfondita analisi sulla storia locale e sulle eterne caratteristiche del potere e dell’uomo in generale. Senza pedanteria, senza tracotanza interpretativa, con uno stile piacevole, con un ritmo incalzante che consente al lettore di non perdere mai di vista l’elemento “romanzesco” che ne giustifica la lettura.


SINOSSI

GIALLO NELLA PALUDE REDENTA, "Agnelli, lupi e figli delle tenebre" nella Latina dei primi anni Cinquanta
Di Antonio Scarsella, Atlantide Editore

C’è il cadavere di un uomo sotto un ponte, lungo l’argine di un canale di bonifica, e il maresciallo Duilio Spolon, di origini venete, deve sciogliere il mistero di un’intricata matassa. Siamo a Latina-Littoria, al centro dell’Agro redento, nel periodo che segue il secondo conflitto mondiale, quando la questione contadina era ancora uno dei problemi più importanti della vicenda nazionale.
L’occupazione delle terre e gli scioperi alla rovescia  animavano la cronaca locale colorandosi di una particolarità tutta interna alla storia di questo territorio: la conflittualità tra coloni assegnatari dei poderi dell’ONC e contadini poveri della collina lepina che si erano sentiti espropriati delle terre della pianura e ne rivendicavano il possesso.
La questione si complicava politicamente perché i coloni veneti assegnatari dei poderi votavano in massa per la Democrazia Cristiana, mentre i contadini poveri dei Lepini erano legati al Partito Comunista e al Partito Socialista, insomma i “bianchi” contro i “rossi”.
È questo il contesto in cui il maresciallo deve dipanare la sua matassa, mentre le indagini si fanno serrate e nutrono contemporaneamente la riflessione politico-filosofica che il giovane carabiniere ama e che lo porterà, contro la stampa locale e i suoi superiori, a percorrere un’impervia pista tracciata dal filo dei ragionamenti e delle analisi scaturiti dalla conoscenza dei luoghi e delle persone.
Un doppio viaggio, quello in pianura, tra i poderi dell’ONC, per interrogare amici e familiari delle vittime e quello sulle colline per inseguire le tracce di un disegno criminoso teso a nascondere le fila di un sistema di sottopotere che imbriglia la vita dei poveri coloni. Durante questo viaggio, il paesaggio si rivela agli occhi del maresciallo e rivela pure le differenze antropologiche, gli incroci di vite, la mescolanza delle culture, gli interessi che si confrontano e si scontrano sulle terre bonificate.
Il rapporto tra pianura e collina è il filo rosso che tiene insieme i ragionamenti, suggerisce piste di ricerca per le indagini. Il territorio è costantemente presente nel racconto, non semplice sfondo o teatro dell’azione ma colui che contiene i segni che spiegano la storia degli uomini.
Al centro c’è sempre la terra. L’atavico desiderio di diventarne proprietari, i sacrifici, le promesse, il riscatto, l’indebitamento, le speculazioni sul loro bisogno. E poi l’opportunismo che non conosce cambiamento di regime: basta cambiare la camicia ed il mondo torna all’ordine di sempre.
Un romanzo che nasce come un giallo ma diventa occasione per un’approfondita analisi sulla storia locale e sulle eterne caratteristiche del potere e dell’uomo in generale.


GIALLO NELLA PALUDE REDENTA è acquistabile nelle principali librerie di Latina e Provincia o direttamente dal sito dell'Editore, spedizione gratuita con Corriere, consegna in 3-4 giorni lavorativi.

https://www.atlantideditore.it/prodotto/giallo-nella-palude-redenta/

Grazie a Dario Petti e ad Atlantide Editore per la disponibilità nella realizzazione di questi articoli

Giardini di Ninfa

 Quella che un tempo era una piccola Roma, oggi vive in un quadro dipinto a quattro mani da Uomo e Natura.

Ninfa prende il nome da un tempio di epoca romana dedicato alle divinità delle acque sorgive, costruito nei pressi dell’attuale giardino. Da #ninfa ha origine una delle sorgenti più importanti della pianura Pontina. Ninfa è simbolo della memoria storica e della vita di questi luoghi.

La storia recente di questo luogo inizia dalla metà dell’VIII sec., fu proprietà di diverse potenti famiglie come i Conti di Tuscolo, i Frangipane e Caetani che diede inizio a quello che sarebbe stato uno dei periodi di maggiore fulgore.

La città fu distrutta nel 1382 e completamente abbandonata. Bisognerà attendere il 1920 per vedere Ninfa tornare a nuova vita, dopo imponenti interventi di recupero attuati da Gelasio e Roffredo Caetani. La grandezza dell’attuale Oasi naturalistica è dovuta soprattutto a Lelia Caetani, ultima discendente della famiglia che portò a termine il progetto dell’attuale giardino seguendo il suo istinto creativo.

L’atmosfera che si respira è quella di un luogo magico, dove vivono, le une accanto alle altre, piante ed essenze floreali provenienti da ogni parte del mondo, come se il terreno ed il clima si adattassero ad esse e le fornissero tutti gli elementi tipici del loro habitat originario, necessari per crescere rigogliose.

Tutto sembra far parte di un progetto soprannaturale, alla cui bellezza contribuiscono il fiume Ninfa i ruscelletti, il lago e la fauna variegata.  


Video realizzato per un Progetto vincitore del "bando Vitamina G" nell'ambito del programma GenerAzioniGiovani.it con il sostegno della Regione Lazio. Discover Agro Pontino è un progetto dell'Associazione Giovanile Radici con la collaborazione di 9cento.

Credits: Divulgatore - Marco Mastroleo

Montaggio video -@Valentino Finocchito

Operatore drone -@Andrea Casalvieri(@9cento) e@Fabrizio Mango
Videomaker -
@Andrea Casalvieri,@Valentino Finocchito,@Fabrizio Mango

Mater Matuta

MATER MATUTA, Satricum

Di Marco Mastroleo Estratto da “Storie di Pietra ed acqua”

È arrivato il giorno. Aspettavo questo momento da quando, lo scorso inverno, mi hai chiesto come mai, invece di dormire in una casa, come gli altri, noi dormissimo nel Tempio. È arrivato il momento del racconto. Alla fine di questa storia lo saprai. Capirai perché sei l’unica bambina in mezzo a tante donne.

Qualche anno fa io vivevo laggiù, in una di quelle domus vicino alla porta ovest. Ero una schiava, polvere sotto i calzari dei padroni. Cantavo, ridevo e scherzavo e, mi dicevano, portavo allegria nella casa. Così sono diventata la preferita della Signora, mi portava sempre con sé, anche quando usciva per andare al mercato o nel Foro.

Così, quando arrivò l’11 Giugno, il giorno dei Matralia, mi disse che aveva una sorpresa per me e mi portò con lei qui, al Tempio.

Fu la prima volta che lo vidi così da vicino, questo immenso e magnifico palazzo. È così grande che tutti gli abitanti di Satricum possono vederlo anche solo alzando lo sguardo. Ma qui, all’interno del recinto, al cospetto della Madre, della nostra Mater Matuta, solo in poche hanno l’onore di accedere. 

L’11 Giugno è l’unico giorno dell’anno in cui i cittadini possono avvicinarsi al Tempio e partecipare a questa grande festa, la festa della Madre, i Matralia.

La Signora mi condusse addirittura all’interno del Tempio. Normalmente le fedeli possono accedere soltanto al portico; quello della Matuta gira intorno al Tempio solo su tre lati: sine postico, lo chiamano.

Io invece fui ammessa oltre le porte del Tempio. 

Ci accolsero Primigenia e Lumia, le due sacerdotesse. Rivolgendosi a me, dissero:

- Sei molto fortunata Sira, oggi sarai la regina della cerimonia, la protagonista del rito. Come sai, all’interno del Tempio, oggi, e solo oggi, potranno accedere le matrone univirae, donne libere, vergini o sposate al loro primo matrimonio. Al di fuori del Tempio, nel portico, verranno presentati i bambini nati grazie all’intercessione di Matuta, la nostra Madre, fonte del giorno e di ogni cosa che inizia, come una vita.

- Quindi io cosa ci faccio qui? 

Mentre mi raccontavano della bellezza di quei fregi, dell’onore di essere lì e di partecipare al rito e della importanza della Madre, tra una parola e l’altra si spiegarono meglio:

- Ad un certo punto... che belle queste terrecotte, guarda... una schiava... (“che sarei io”, pensai)... e questi colori? Hai mai visto degli intonaci più lisci e brillanti? Insomma, una schiava viene scacciata dal Tempio a colpi di frusta... che bella luce c’è oggi... e deve scappare via urlando...

Poi la mia giornata proseguì come da programma: attendendo le mie sacre frustate me ne stetti in disparte. Ascoltavo, osservavo e vagavo, godendomi lo spettacolo del Tempio per quell’unico giorno, perché, pensavo, in quel posto non avrei più messo piede.

La sera successiva ai Matralia il mondo cambiò.

Era un periodo di guerra. I Romani stavano tentando di nuovo di conquistare la città. 

Un giorno, il più lungo, tutto sembrava volgere a favore dei Romani. La porta ovest stava cedendo ed avevano cominciato a forzare anche la porta est, non pioveva da tanti giorni ed il cibo ormai, dopo quattro mesi chiusi tra le mura, cominciava a scarseggiare. I soldati erano allo stremo. Inoltre, dopo la festa dei Matralia, la statua della Mater Matuta era stata prestata a Circeii, dove era custodita nel Tempio di Circe, per via di un certo allineamento astrale che andava celebrato per bene, sul picco della montagna. Insomma, anche il morale era basso in città. Tutto faceva pensare ad una resa. Ed in realtà ci arrendemmo. Qualche anno dopo. Non quel giorno.

Quel giorno...

… prosegui la lettura del racconto su “Storie di Pietra ed acqua”


SINOSSI

“Questo libro è scritto… “con i piedi”! Perché è da lì che parte tutto: dai piedi e dai passi, uno dietro l’altro, delle lunghe camminate che conducono tutti i personaggi di questa raccolta di racconti preistorici da un luogo ad un altro, da un tempo ad un altro. Questo è, sì, un libro che parla di scienza e di archeologia ma lo fa affidandosi alle avventure di Mino, il piccolo Dinosauro cantastorie (ispirato alle impronte di Rio Martino), e a Sira, la sacerdotessa della Mater Matuta, passando per Gea, Circe e tanti altri. Lasciandosi trasportare dalla spasmodica ricerca della luce, nei meandri dell’oscurità, o dallo sciabordio dell’acqua, che tutto cela e tutto svela, o dai sussurri del vento, ognuno di noi potrà scoprire la faccia meno conosciuta dei luoghi che ci circondano… La faccia preistorica dell’Agro Pontino”.

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STORIE DI PIETRA ED ACQUA,La Preistoria nell'Agro Pontino

(di Marco Mastroleo. Atlantide Editore, 2019) è acquistabile nelle principali librerie di Latina e Provincia o direttamente dal sito dell'Editore, spedizione gratuita con Corriere, consegna in 3-4 giorni lavorativi.

https://www.atlantideditore.it/prodotto/storie-di-pietra-ed-acqua/

Grazie a Dario Petti e ad Atlantide Editore per la disponibilità nella realizzazione di questi articoli

Passo Genovese, c'era una volta un ponte

c'era una volta un ponte... il ponte di passo genovese

Una strana “riscoperta”

In queste poche righe vogliamo raccontarvi una storia insolita di “riscoperta” del patrimonio archeologico e culturale. 
È proprio vero: "quando vuoi nascondere qualcosa, mettila sotto gli occhi di tutti!". Diventerà parte del paesaggio, parte del tutto, e diventerà "invisibile"! 

È quello che succede ogni giorno con i nostri  oggetti, con i modi di fare, con le strutture, in sostanza con la cultura del quotidiano: con il passare del tempo sparisce, risucchiata dal nuovo e dall’abitudine.
Ecco perché quando qualcuno comincia a “ricordare”, in un certo senso è come se facesse una  scoperta, è come se quello che vede fosse del tutto “nuovo” anche se realisticamente non può che essere definito “vecchio”!
Si chiama “archeologia”, le sue fondamenta stanno tutte lì, nella riscoperta del vecchio che viene liberato dagli strati di abitudine che l’hanno ricoperto per anni, per secoli o addirittura per millenni.

È quello che è successo anche al ponte di Passo genovese. 

Era lì, sotto gli occhi di tutti i frequentatori di foce verde e del litorale di Latina ma poi, un po’ per incuria, un po' per via dell’abusivismo, un po' perché la foresta che componeva la cosiddetta “selva di Cisterna” prima della bonifica prepotentemente si riprende ogni spazio che le apparteneva quando viene lasciato incustodito … il ponte era scomparso, anche se è sempre rimasto lì ed anche se era “sotto gli occhi di tutti”.

Chi, quando e perché

È stato il gruppo di Protezione Civile “Passo Genovese” di Borgo Sabotino che lo ha “scoperto”, in tutti i sensi!
Sono passati più di dieci anni ormai: ad Ottobre del 2009, i volontari dell’associazione ripulirono il ponte da sterpi, arbusti e rifiuti per riportarlo alla luce, all’aria... a respirare: un primo passo verso l’adozione di questo monumento.
Venni invitato a fare l'archeologo supervisore dei lavori e, per questo motivo, ho deciso di raccontare ancora una volta, a distanza di dieci anni, quello che è venuto fuori, perché penso che possa servire a qualcosa ed a qualcuno.
Penso che questo lavoro, infatti, abbia un notevole valore, sia dal punto di vista pratico che dal punto di vista simbolico.
Il lato pratico lo lascio al resto dell’articolo, quello simbolico eccolo qui. 

L’associazione ha scelto il ponte di passo genovese come suo simbolo, lo ha inserito nel nome ed anche nello stemma. Sembra una cosa banale ma non lo è, questo interesse nei confronti di un monumento è "notevole" e rispecchia quello che dovrebbe succedere normalmente nei confronti dei beni culturali, che sono il simbolo della nostra identità e del nostro territorio. Si tratta brutalmente di “marketing della cultura”. Serve a far circolare nomi e fatti che rendono più vicini questi monumenti al sentire collettivo. Chiunque avrà a che fare con la Protezione Civile di Borgo Sabotino si chiederà: perché “Passo Genovese”? Cos’è? E scoprirà un pezzo in più della sua storia e del suo territorio!
Se tutte le associazioni o le aziende facessero così, i Beni Culturali Italiani avrebbero valori inestimabili e noi non avremmo perso il senso dell’appartenenza e delle radici come invece stiamo facendo.

C’è anche un altro valore che sta dietro questo gesto: un valore “civile”.

L’area di foce verde non è sicuramente una “perla” della Provincia: inquinamento, centrale nucleare, Terna, progetti di porti faraonici e soprattutto, abusivismo edilizio ed abbandono sono le uniche parole che ti vengono in mente quando passi da lì. Di certo non viene da pensare a quel tratto di costa come ad un pezzo fondamentale della storia della Provincia, né ad un parco archeologico!

E poi i problemi sono tanti e vari che interessarsi alla tutela di un monumento non è certo la priorità, neanche se intorno ci costruiscono una baraccopoli abusiva ed una mezza discarica a cielo aperto!
”Pulire” un monumento in quella zona equivale a dire: noi teniamo a questo posto e, se ci teniamo, un motivo ci deve essere! 

         

 PASSO GENOVESE PRIMA DELLA PULIZIA

Un pezzo di storia da raccontare

Non si può certo dire che il ponte di passo genovese sia uno dei monumenti più importanti della zona, tuttavia, la sua presenza ha un pezzo significativo di storia da raccontarci, soprattutto per quello che oggi si chiama Borgo Sabotino.
Partiamo dal nome: Passo Genovese
Durante la bonifica integrale degli anni 20-30, tutti i borghi della provincia hanno perso il loro nome originario e sono stati ri-battezzati con i nomi delle battaglie principali della Prima Guerra Mondiale. Stessa sorte è toccata a Borgo Sabotino che, in precedenza, si chiamava Passo Genovese.

Non a caso, la toponomastica è una delle scienze che contribuiscono alla ricostruzione della storia dei luoghi.
Il fatto che quella zona si chiamasse Passo genovese lascia intendere che Genova vi abbia qualcosa a che fare.
Prima della bonifica, la zona era sotto lo Stato Pontificio, commerciava molto con i genovesi ed era nota in tutta Italia per tre aspetti strettamente legati alla palude stessa:

  • le bufale e la produzione di latte e mozzarelle.
  • Il legname di tipo forte delle foreste della allora “Macchia di Cisterna”, soprattutto querce, che Genova utilizzava per costruire le sue imbarcazioni
  • Il pesce di acqua dolce e salata che proveniva dai laghi, dagli stagni e dalle peschiere oltre che dal mare e che veniva trasportato a Roma, dove era molto apprezzato. 

L’intenso commercio con i genovesi era anche dovuto allo scambio di minerali metallici che loro portavano qui dall'isola d'Elba per alimentare Le Ferriere di Conca. Un rapporto privilegiato che ha dato il nome alla zona, sancito anche a livello formale dallo Stato Pontificio, anche a seguito di alcuni favori di guerra per i quali la Chiesa era debitrice. 

Borgo Sabotino in quanto tale, venne costituito come villaggio di appoggio per i lavori di bonifica che si dovevano realizzare nella zona. L’opera più importante era proprio l’apertura del tronco inferiore del Canale Mussolini, come sfocio a mare del Fosso Moscatello presso la torre di Foce Verde.
Il fosso Moscarello scendeva dai Colli Albani, e si “inpantanava” nella zona retrostante la duna marina fino a tracciarsi un vero e proprio alveo alle spalle della duna e parallelo alla costa.
A nord della torre di Foce Verde avveniva la stessa cosa con il Canale di Mastro Pietro, un derivatore del Fiume Astura che portava, anche attraverso il Moscatello, acqua dolce nel lago di Fogliano.
Si veniva a creare quindi, una vera e propria via acquatica, un sistema di collegamento in parte artificiale ed in parte naturale tra i vari fiumi e laghi costieri, quella che è stata chiamata “fossa Augusta”, la via di collegamento tra il litorale Romano (il Tevere) ed il Circeo (il Lago di Paola).

Il ponte di Passo Genovese serviva a “scavalcare” questi fossi (in particolare il Rio Giordanello) e consentire il carico delle navi genovesi (ma non solo) ormeggiate al largo, in mare.
Non si tratta quindi, di un vero e proprio ponte ma di un pontile di carico, un molo ed un “braccio murario” di collegamento tra il mare ad una probabile strada posta sulla duna quaternaria (quella dove ora scorre la via litoranea).

La parte in muratura del ponte di Passo Genovese (vedi architettura del ponte) passava probabilmente proprio sul fosso Moscarello, ora interrato e parallelo alla costa. Ecco perché l’andatura del ponte è perpendicolare alla costa e parallela all’attuale Foce verde. 

La strada di cui si ipotizza la presenza potrebbe essere stata la via Severiana.

La leggendaria Via Severiana era una strada litoranea di collegamento tra Roma ed il Circeo, fatta costruire o forse, più probabilmente “rintracciare e valorizzare” sulla base di un tracciato già esistente, da parte della dinastia dei Severi, gli imperatori che governarono Roma nel I sec d.C..
La via Severiana comprendeva diverse “stazio” (stazioni di posta, luoghi destinati al rifornimento ed al risposo), tra le quali molte possono essere riconosciute negli stessi posti in cui adesso sorgono Torre Astura, B.go Sabotino, la foce di Rio Martino (B.go Grappa),  e così via fino al Circeo a Torre Paola.
La via Severiana era importante perché serviva a collegare la costa pontina ed il suo sistema di laghi (dove, tra l’altro, sorgevano diverse ville romane) a Roma, con notevole movimento di merci, che avveniva sulle chiatte lungo la già citata “fossa augusta”. È evidente che il trasporto su carro doveva, in alcuni casi, essere molto più rapido di quello su chiatta trainata.

Come era fatto il ponte: l’architettura

Quello che vediamo adesso è il risultato finale di quello che potremmo definire un “restyling strutturale” del ponte avvenuto sotto Pio VI (1775 – 1799) 

Prima di essere in muratura, il ponte doveva essere in legno e doveva esistere già dall’epoca romana, contemporaneo alla via Severiana.

La struttura attuale ricalca i canoni dell’architettura settecentesca, è composto di tre parti realizzate con due tecniche costruttive diverse e forse se ne può ipotizzare una quarta: 

  • Prima parte: tra la duna ed il ponte, realizzata con la cosiddetta tecnica a sacco, ovvero un terrapieno foderato in pietra che doveva essere una vera e propria rampa o strada sopraelevata fino al ponte in muratura,
  • Seconda parte: al di sopra di un canale parallelo al mare, probabilmente un affluente del canale di foce verde, in muratura. Quattro archi in mattoncini realizzati su 4 pilastri in pietra con facciata in cortina decorata in pietra. 
  • Terza parte: un altro terrapieno che doveva superare il secondo livello di dune, più basse rispetto alla duna quaternaria.
  • Quarta parte: dal terrapieno al mare. Non essendoci resti né fonti che lo testimonino, possiamo solo ipotizzare la sua presenza. è in dubbio se fosse in muratura o in legno e doveva servire da vero e proprio molo di imbarco, passando sopra la spiaggia ed arrivando fino in mare. Non essendoci neanche resti delle fondamenta in pietra al largo, è possibile ipotizzare che fosse in legno come la prima versione del ponte.

In conclusione, questo posto della Provincia Pontina, è importante per quattro ragioni:

  • è la testimonianza di una realtà pre - bonificafondamentale per l’economia della zona: lo sfruttamento della già citata “selva di Cisterna”come fonte di legname. 
  • dimostra l’esistenza di un discreto traffico di merci tra la terraferma ed il mare
  • dimostra probabilmente l’esistenza di una via di comunicazione di una certa importanza, quella che qualcuno ha riconosciuto come la via Severiana.
  • è la testimonianza dell’esistenza di una idrografia complessa(sia naturale che artificiale) che doveva tenere collegati i laghi con i fiumi e le coste.

Lavoro di pulizia e scelte tecniche

I problemi che si affrontano quando si decide di pulire un monumento sono soprattutto di carattere conservativo. Quando si va a togliere l’involucro di piante, spazzatura e terra che lo hanno ricoperto per anni si corre il rischio di “esporlo” di più alle intemperie ed al vandalismo. Anche se è brutto dirlo, quando un monumento è sepolto, si conserva meglio e può sopravvivere più a lungo. 

Ecco perché bisogna fare molta attenzione ed avere una certa lungimiranza, senza esagerare e pulire troppo.
I volontari della Protezione Civile, con ruspe, motoseghe e roncole hanno eliminato tutti gli arbusti, i giunchi e le canne che crescevano sopra ed intorno al monumento ma, insieme, abbiamo deciso di lasciare in loco le radici degli arbusti e di tenerle sotto controllo lasciandogli continuare quel lavoro di imbrigliamento delle strutture che hanno fatto così bene negli ultimi anni. Abbiamo deciso inoltre di lasciare un letto di terra e muschio sulla sommità del ponte che aiuti a proteggerlo dalle intemperie. I fianchi invece sono stati puliti del tutto per lasciarli respirare ed asciugare ed è scavato un canaletto per il deflusso delle acque stagnanti verso i vicini canali di deflusso per evitare il ricrearsi di quelle terribili mini-paludi che stavano inzuppando le gambe del ponte.

 

OPERAZIONI DI PULIZIA DEL PONTE e PONTE A LAVORO FINITO

La domanda finale

Se questo fosse un quiz, questa sarebbe la domanda finale, quella a cui, se rispondi bene, vinci cifre esorbitanti: e dopo? Cosa è successo dopo la pulizia?
L’associazione decise di “adottare” il ponte, che si tradusse in: ci pensiamo noi a tenerlo pulito ed a valorizzarlo per bene. Ed, in effetti, con iniziative di pubblicità e di pulizia, ci stanno pensando loro. 
Si tratta indubbiamente di una azione nobile e riguardevole ma io mi chiedo: basta? 

Nel senso, può una associazione di volontariato impegnarsi a tempo indeterminato per la salvaguardia e la tutela di un monumento? E soprattutto, spetta davvero a loro farlo? Hanno i mezzi e le competenze necessarie?

È vero che non stiamo parlando del Colosseo ma la domanda è quella che tutti coloro che si occupano di Beni Culturali in Italia si trovano a fare di frequente: Dov’è finito lo Stato? Che dovrebbe salvaguardare il patrimonio pubblico attraverso risorse specifiche ed istituzioni che trà l’altro già esistono!
La verità è che questo tipo di azioni fatte da parte dei privati sono lodevoli ma se le facesse lo Stato sarebbe parte del suo dovere Costituzionale!

In conclusione la domanda rimane: cosa ne sarà del ponte di passo genovese? Verrà restaurato? Le costruzioni abusive che sorgono intorno (a ridosso della spiaggia e quindi anche a rischio idrogeologico) verranno abbattute? I terreni di accesso al ponte che attualmente sono incredibilmente privati (stiamo parlando di un pezzo della duna quaternaria, parte del demanio dello Stato), verranno espropriati? Il ponte sarà accessibile e fruibile?

Per ora, la risposta è: forse, chissà... speriamo, non per il momento... un'altra occasione caduta nel vuoto!


di Marco Mastroleo

Gran parte dei dati storici provengono dal prezioso lavoro di Francesco Tetro.
In particolare, per la redazione di questo articolo, ho consultato:
Paola de Paolis – Francesco Tetro, La Via Severiana. Da Astura a Torre Paola, Regione Lazio Ente Provinciale per il Turismo Latina, 1986 

PER MAGGIORI INFORMAZIONI SULL'ASSOCIAZIONE PASSO GENOVESE E SUL PONTE, VISITATE IL SITO http://www.passogenovese.org


da un'idea di Marco Mastroleo

per maggiori informazioni, contattaci su Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

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